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Juan Carlos Cáceres: la negritudine del tango

21. aprile 2013 – 17:32No Comment
Juan Carlos Cáceres: la negritudine del tango

Continua il lamento rioplatense per riscattare le radici africane del tango del poliedrico artista argentino. Pianista, compositore, cantante e leader del Tango Negro Trio,  Juan Carlos Cáceres l’abbiamo incontrato prima del concerto di presentazione dell’album, “No Me Rompas Las Bolas” (Felmay), al Bravo Caffè di Bologna. Della partita facevano parte anche Carlos “El Tero” Buschini e Marcelo Russillo, cofondatori del Trio.

INTERVISTA.

Maestro Cáceres, partiamo dalle sue origini.

Dal lato paterno sono creole,  mentre da lato materno sono italiane e precisamente di Potenza. Da lì partirono i nonni nel 1890 alla volta dell’Argentina dove sono nato nel 1936.

Prima di parlare del Tango Negro Trio  vuole raccontarci come e quando si è avvicinato alla musica?

Eravamo nel pieno della seconda guerra mondiale, avevo 8 anni quando iniziai a studiare  accademicamente musica classica con il pianoforte e dopo 6 anni continuai da autodidatta. Da giovanissimo formai la mia prima orchestra di tango,  poi con l’avvento della moda  della musica europea e dell’esistenzialismo  incominciammo a interpretare  jazz tradizionale, dixieland revival ecc., però il jazz non arrivava direttamente dagli Stati Uniti ma soprattutto dalla Francia, in quanto a Buenos Aires vi erano solidi rapporti culturali con la capitale parigina attraverso l’esistenzialismo , il jazz manouche, le musiche di Django Reinhard  e alcuni dei suoi musicisti  che hanno soggiornato per un po’ di tempo in Argentina.

Polistrumentista, ma con quale strumento approcciò il jazz e chi furono i suoi punti di riferimento?

Mi sono accostato al jazz con il piano, ne avevo assimilato  i primi rudimenti e il modo di improvvisare mentre facevo tango poiché le partiture dell’inizio del secolo  scorso che suonavo e erano una sorta di ragtime. Negli anni Venti  vi erano composizioni anche di tango tradizionale con  delle armonizzazioni alla Gerswhin o  alla Ellington, forse perchè molti musicisti tangheri erano ammiratori  dei grandi maestri jazz e soprattutto di Duke Ellington. Erano brani impostati diversamente dal jazz per via della canzone ma vi erano punti di contatto tra i due linguaggi. A 18 anni decisi di cimentarmi anche con il trombone e non fu complicato perché avevo già imparato l’armonia moderna. In tutte le mie produzioni da oltre trent’anni riabilito sempre l’utilizzo del trombone.  E’ qualcosa che debbo tenere sempre vivo. Ad esempio nel prossimo disco a mio nome (e non con il Tango Negro Trio) che pubblicherò a Parigi  suonerò anche charleston,  dixieland mescolato naturalmente al tango e impiegheremo trombone, tromba,  sax soprano, clarinetto. I miei maestri? Sembra paradossale dopo quel che ho detto, ma erano Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Miles Davis.

Strumentista, cantante e compositore. Ricorda il nome della sua prima composizione?

Un pezzo di musica brasiliana  intitolato  ‘Samba de la mirada’. Negli anni Sessanta ho firmato musiche per film, temi di jazz, alcune opere sono inedite, ma il lavoro compositivo più consistente l’ho prodotto dopo essermi trasferito in Europa.

Esattamente quando, dove e perché?

Arrivai nella capitale francese nel bel mezzo dell’epico Maggio, il 14 maggio del 1968 tra lotte, scioperi, occupazioni di università, scontri tra studenti e polizia. Insomma avevo lasciato l’Argentina sotto il governo militare del Generale Carlos Onganía e il continente latinoamericano sotto assedio e mi trovai in una città europea in pieno scompiglio.  Il motivo del trasferimento lo si deve al fatto che essendo polistrumentista mi chiamarono per accompagnare Marie Laforet, un’attrice e cantante francese che alcuni  ricorderanno perché era l’interprete de La Playa, che in Italia cantò Marisa Sannia con il titolo Se qualcuno si innamorerà di me.

Quindi la sua cavalcata artistica parigina tra tango, classica, rock, canzone d’autore e pittura continua da oltre quarant’anni?

Sì,  all’inizio del Settanta debuttai sulla scena internazionale con il mio primo gruppo che si chiamava Malon. Suonavamo un misto di latinjazz, sonorità alla Carlos Santana con accenti argentini di milonga, chacarera e  candombe ed effettuammo varie tournèe in Europa. Con Malon è avvenuto il mio esordio discografico, omonimo album distribuito nel mondo dalla Philips.

Già, Malon.  Nel 2008, e dopo trentacinque anni, attraverso il Tango Negro Trio,  fondato con il bassista Carlos “El Tero” Buschini e il batterista Marcelo Russillo (nella foto), c’è stato il “ritorno del Malon” attraverso l’album la Vuelta del Malon.  Lessicalmente che significa malon e cosa avete voluto rappresentare con quel lavoro?

Quel vocabolo vuol dire “incursione improvvisa” e si riferisce alle azioni di ritorsione degli indios araucani contro il fortino degli invasori, i colonizzatori. Il  disco ‘Malon’ rifletteva lo spirito e la situazione politico sociale dell’America Latina della fine anni Sessanta. Gli ideali di Che Guevara erano vivi nelle piazze per contestare quanto accadeva nel continente e nel mondo. Con la Vuelta del Malon si è voluto sottolineare che, nonostante tutte le lotte, le aspettative, le promesse e il trascorrere degli anni, le cose non sono cambiate molto. Rimangono molti diritti negati, dei lati dimenticati della storia ufficiale.

Storia che in parte lei ha messo in discussione soprattutto come etnomusicologo e da cui esce la sua tesi controcorrente sull’africanità del tango, sul ruolo del tamburo.  E la quintessenza del manifesto della negritudine del è raccolta nella strofa che canta “mandinga, congos y minas/ repiten  en el compás/ los toques de sus abuelos/ borocotó, borocotó, chas, chas”. Come dire che il tambor è stato l’anima del tango e non il bandoneón?

È  certamente così, vi sono documenti,  e le parole citate di Tango Negro ribadiscono che se non fossero esistiti i negri non ci sarebbe il tango, che possiamo considerare come una delle prime musiche di fusione,  musica de Ida y Vuelta (andata e ritorno), fenomeno che incorpora molte cose e lo spiego nel libro che ho pubblicato sull’argomento. Il tango ha un grande deposito di materiale e io faccio un lavoro endogeno nel senso che io mi servo del suo passato: etimologicamente nella lingua bantù tango vuol dire tamburo; il tango ha una moltitudine di fonti, di ritmi che sono il candombe, la habanera, la milonga ecc.  che in diversi momenti della storia del secolo XIX si diedero appuntamento nel Rio de la Plata.   In sintesi,  per capire il binomio negro-tango bisogna partire da  una storia negata. All’inizio questa era la musica degli schiavi di Buenos Aires e  di Montevideo;  si suonava con  tamburi e strumenti a fiato su ritmo binario e molto veloce.

Poi cosa è successo?

Con il passare degli anni  gli afroargentini sono scomparsi quasi del tutto. Da un censimento abbastanza recente risultano 3000 neri, mentre a Buenos Aires nel 1880 più del 45 per cento della popolazione era di origine africana, poi tutto è cambiato con l’arrivo di italiani, spagnoli ed  ebrei, la società si è lentamente  sbiancata  e parallelamente il tango. Cinquant’anni dopo l’arrivo del bandoneón tedesco  il tango cominciò ad europeizzarsi, diventando più lento e sofisticato. All’inizio del XX  secolo arriva  a Parigi ancora con il suo aspetto canyengue, ossia negro ma qualcuno percepisce che può diventare un business e si trasforma in danza da grande sala  da ballare in smoking, e  per questo ha avuto un successo nell’aristocrazia, nella borghesia, all’epoca di Marcel Prous. Tuttavia, fino al 1940, alcune orchestre di tango avevano i candomberos, una sezione ritmica di tamburi afroargentini,  percussioni simili a quelle impiegate nei rituali, del candomblé in Brasile o  candombe in Uruguay. Diversamente da noi  a Montevideo questa tradizione è molto viva  perché c’è una comunità nera consistente.

Eliminato il candombero, il beat chi lo ha messo nel tango?

A seguito di questa assenza la ritmica si sviluppò dentro gli strumenti armonici: l parte della percussione la faceva  il contrabbasso e/o il violino, era un lavoro di compensazione. Per fortuna oggi ci sono giovani che cercano di riappropriarsi del passato, hanno preso consapevolezza della storia, della revisione che è in atto nel paese.

Possiamo dire che tango, ragtime, blues si sviluppano nel medesimo brodo di coltura, in un habitat analogo di miseria, malavita e bordelli?

In parte è vero poiché sono musiche scaturite dal medesimo tronco ancestrale, dallo stesso conio. Sull’ambiente dov’è nato direi di no, è analogo ma non uguale. A New Orleans, il jazz  nasce nel quartiere dei bordelli, mentre il tango a Buenos Aires o a Montevideo matura nei sobborghi, che non sono i bassifondi della malavita. La società argentina fino all’arrivo degli italiani e di altri europei era più o meno come Cuba o Brasile. I neri vivevano assieme a mulatti, indios, creoli; c’era il candombe rituale, c’era il carnevale degli afroargentini e tutti ballavano. Buenos Aires non era la megalopoli di oggi, c’erano ambienti umili, poveri, ma non bordelli. Vi erano prostitute, è vero, ma la prostituzione arrivò come prodotto dell’immigrazione di massa e solamente due comunità giunsero con la famiglia: gli ebrei e i francesi, mentre gli italiani erano celibi. Nel 1900 si resero conto che mancavano donne e così si instaurò la prostituzione organizzata e si formarono compagnie che commerciavano donne bianche. Da questo momento in poi il tango cambia, si unisce a malavita e si tinge di nostalgia, malinconia, di poesia negativista. Quando si scrive il contrario si commette un errore e purtroppo è successo e molti continuano a ripetere balle.

A proposito di balle, due parole sulla tracklist di “No Me Rompas Las Bolas”, ultimo cd del Tango Negro Trio (Felmay). Qui il tango e il jazz si intrecciano come non mai con pattern ritmici afrolatini (clave, cascara rumbera ecc.),  ci sono bei fraseggi,   ma quel che spicca è il suo indomabile spirito ribelle e una carica comunicativa a dir poco dirompente, e fin dal titolo. Con chi ce l’ha?

“Non mi rompere le palle” lo dico al mondo intero, per la stanchezza che provo verso tutte le stupidaggini e assurdità a cui dobbiamo assistere ogni giorno; è come dire basta a tutto, a Berlusconi, a tutti i governanti, ovunque, alla mafia, alla corruzione, alle guerre inutili eccetera.

Nel brano Sudacas canta che nel Settanta il Sudamerica era triste, piangeva e molti furono costretti all’esilio.  Oggi il Continente è allegro?

Quel pezzo parla di esperienze personali, è una miscela di suoni diversi, di candombe  con rumba flamenca.  Non direi allegro, ma negli ultimi anni le cose sono indubbiamente migliorate, c’è ancora tanto da fare ma si è aperto un altro capitolo rispetto agli anni di violenza.

La mente corre alla voce rabbiosa del sax di Gato Barbieri. Cosa mi dice del suo famoso connazionale e coetaneo?

Ci siamo conosciuti negli anni Cinquanta durante le jam session che avvenivano Buenos Aires e lì abbiamo suonato assieme qualche volta. Poi lui è emigrato prima di me e ci siamo persi di vista fino al 1971- 72 quando il mio produttore aveva ideato un progetto discografico a tre: io , Carlos Santana e Gato Barbieri. Per problemi di vario genere poi non si realizzò, ma ci incontrammo in diverse occasioni quando registrò le musiche del film Ultimo tango a Parigi.

In conclusione, la musica del Tango Negro Trio è tango d’autore, tango jazz o latin jazz?

La musica, secondo me,  non andrebbe spiegata e catalogata. Noi suoniamo a festival di jazz, di musica latina, di musica etnica, e anche barocca. Comunque, per fare un esempio,  alla Virgin o alla Fnac di Parigi i nostri Cd li mettono tra le musiche del mondo. Quindi worldmusic.

Gian Franco Grilli

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