CUBA libri.Torna “Cimarrón – Biografia di uno schiavo fuggiasco” di Miguel Barnet

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Cuba: Pablo Menéndez e il latin di Mezcla

6. gennaio 2015 – 21:532 Comments
Cuba: Pablo Menéndez e il latin di Mezcla

Il chitarrista e cantante californiano, antimperialista, nel 1966 ha sposato Cuba en todo: musica, idee ribelli e donne. Di questo e di altro si parla in questa lunga intervista raccolta all’Avana da Gian Franco Grilli.

All’Avana, se chiedi di Pablo Menéndez molti  non sanno dirti chi è. Ma se aggiungi Mezcla, allora per tutti è Pablo «l’americano», il musicista figlio di Barbara Dane, blues singer statunitense che negli anni Cinquanta e Sessanta condivideva la scena con Louis Armstrong, Jack Teagarden,  Willie Dixon. Comunista, la Dane fu la prima artista nordamericana in tournée a Cuba dopo il trionfo della Rivoluzione violando l’embargo di Washington. E Pablo con lei.

Pur in presenza di una lunga carriera internazionale, in Italia si sa poco di te. Chi è Pablo Menéndez?

Faccio una premessa: non sono mai stato a suonare in Italia con il mio gruppo Mezcla ma ho avuto la fortuna di venirci nel 1972 e nel 1982 accompagnando con la chitarra mia madre Barbara Dane (foto), che è un’importante cantante di blues e jazz. Sono nato il 21 giugno 1952 a Oakland, California, una città multiculturale dove si incontrano tutte le razze e culture del mondo,  tanto che passeggiando per strada le mie orecchie si nutrivano allo stesso tempo di blues, musica mariachi, bossanova, gospel o di ritmi cubani in voga da qualche anno nel mondo come mambo, rumba o cha cha cha, e sui quali si conobbero i miei genitori. Mia madre è stata fondamentale nella mia vita: mi ha trasmesso amore, valori, ideali,  mi ha insegnato la musica quando avevo circa sette anni. A dodici di mia iniziativa ho studiato un po’ anche il trombone. Di origine anglosassone, cresciuta a Detroit,  mia madre ha rappresentato per me un esempio da seguire, sono orgoglioso di lei  e non solo per il fatto che è una delle prime cantanti bianche  nordamericane di blues e jazz che a metà degli anni Cinquanta lavorava con nomi del calibro di George Lewis, Jack Teagarden, Lightnin’ Hopkins, Memphis Slim, Willie Dixon, Muddy Waters, Louis Armstrong solo per citarne alcuni.  Una donna che – malgrado le conseguenze da pagare nella società americana se eri anticonformista –  si è battuta in difesa dei diritti civili e interpretava canzoni di protesta. Mi sono ritrovato prestissimo così come chitarrista ad accompagnare gli spettacoli della mamma.

Fin qui hai tracciato le tue origini materne, ma non hai fatto cenno a quelle paterne che, stando al cognome, sono senz’altro ispaniche.

Negli Stati Uniti non è una rarità il cognome spagnolo poiché ci vivono oltre quaranta milioni di ispanici provenienti dall’America Latina o dalla Spagna. E proprio dalle Asturie arrivò mio nonno paterno mentre mio padre nacque a New York, che tra l’altro non parlava quasi l’idioma spagnolo. Guardando indietro debbo dire che ero predestinato a diventare una miscela, il risultato di culture diverse, una mezcla, come il nome del mio futuro gruppo, fin dalla nascita.

Ripercorriamo le tue esperienze di vita e artistiche dal tuo sbarco a Cuba.

Era il 1966, mia madre arrivò all’Avana per una tournée,  un lavoro normale per chi fa il musicista,  ma non tanto lo era in quegli anni per uno statunitense: Barbare Dane fu la prima artista nordamericana a sfidare le proibizioni del Dipartimento di Stato di Washington di recarsi nell’Isola ribelle. Il governo cubano utilizzò a suo favore questi concerti sfruttando politicamente la consegna rivoluzionaria Cuba Sí, Yanqui No! Quel tour simbolizzò la possibilità di sviluppare relazioni di amicizia tra il popolo statunitense e quello cubano superando i conflitti tra i due governi. Perché mia madre osò tanto? Non sopportava più di vedere  che negli Stati Uniti i giovani venivano spediti in Vietnam,  in ogni città scoppiavano rivolte degli afroamericani,  aumentavano i conflitti sociali e l’alienazione,  la gioventù si abbruttiva con le droghe, mentre le giungeva voce che i coetanei di Cuba  si stavano impegnando per trasformare il proprio paese e offrire un esempio al mondo di lotta contro l’imperialismo che voleva strozzare la loro Rivoluzione. Quel viaggio prevedeva per me di restare a studiare musica nella capitale cubana per un anno, e non me ne sono più andato, qui mi sono sposato e di qua ho visto passare tutti i grandi della musica del mondo. Ritengo che questo sia uno dei posti più affascinanti del globo, una sorta di ombelico del mondo, prendendo a prestito una canzone di Jovanotti. Amici stranieri cercano ogni tanto di farmi mutare idea,  sia per la situazione economica precaria,  che per  il bloqueo o il caos organizzativo conseguente a qualsiasi trasformazione sociale, e via dicendo. Allora gli rispondo che “molti dei miei amici o compagni di scuola californiani – per un qualche motivo, che sia repressione poliziesca o droga o altro che non so dirti – non sono sopravissuti agli anni Sessanta” mentre io sono qui a suonare e a vivere in un paese che mi piace, difendo e…

…forse canti anche il ritornello patriottico e rivoluzionario di Eduardo Saborit «Cuba que linda es Cuba/Quién la defiende la quiere más». Tralascio mie obiezioni  perchè dibattere sul fenomeno politico cubano so che è complesso e lungo. Tuttavia, consentimi, è curioso  che  oggi, e soprattutto un nordamericano, sia più cubano dei cubani (più realista del re) e nonostante tue parole di qualche anno fa quando dicevi che tutto cambia, il paese cambia e così via. E per di più quando l’autoctono Pablito Milanés, compositore, interprete, icona della canzone militante, è da tempo insofferente verso la burocrazia del Paese.

Grazie per citare quel bel refrain. Detto questo non voglio discutere le parole di un grande come Milanés,  seguo le mie convinzioni e ti dirò di più: se analizzi  i testi delle canzoni di world music provenienti da Africa, Asia, America latina noterai che quasi tutti i pezzi sono politici che parlano dei problemi del mondo: ingiustizie, violenze sui più deboli, corruzione dei governi,  riscaldamento del pianeta e distruzione della natura. La canzone di lotta deve continuare,  perché i potenti mezzi di comunicazione di massa ci impongono altre culture e l’essere umano intelligente deve rifiutare questo dominio, difendere la propria cultura ed eliminare forme di xenofobia. La musica serve per far conoscere persone lontane tra di loro e quando avviene molti si rendono conto che siamo più simili di quanto non si creda.

Cioè, vuoi specificare meglio?

Faccio un esempio: la nostra cifra musicale contiene anche richiami di ritmi batà, canti rituali della santeria e in varie occasioni mi è capitato di essere avvicinato da scandinavi che con sorpresa mi chiedevano: «Ah! Ma la divinità yoruba Changó è più o meno come il mito nordico di Thor, dio del fulmine e del tuono, divinità invincibile, figlio di Odino e paragonabile a Zeus-Jupiter». E si potrebbe continuare, ora parlando con te mi viene in mente la relazione del napoletano con la tammorra e le nacchere, la tammurriata o la tarantella di cui mi accennavi prima dell’intervista, rapporti che non sono esclusivamente musicali ma si tratta di forme di celebrare la vita. In sintesi, le differenze sono cosmetiche, di facciata,  ma nell’essenza siamo affini e facenti parte di una stessa razza umana che in questo momento  più che mai deve affrontare pericoli globali. Dobbiamo cercare di resistere a coloro che cercano di dividerci poiché sono contro il benessere dei popoli.

Parlaci dell’ambiente musicale cubano che hai trovato da ragazzino, magari con qualche aneddoto e come è proseguito il tuo cammino.

Iniziai a studiare chitarra nella Escuela Nacional de Arte (Ena) con il maestro Isaac Nicola e tra gli alunni c’erano nomi come Juan Pablo Torres, Joaquin Betancourt, Enrique Plá, “el Tosco” José Luis Cortés, gente che suonerà poi negli Irakere e in altri gruppi importanti.  In quegli anni creai un complessino rock con Emiliano Salvador, compianto pianista jazz,  e anche con il cantante Basilio Repilado, figlio di Compay Segundo. Mi piace ricordarti che Compay fu il primo a insegnarmi sulla chitarra una canzone cubana e comincia a capire il mondo dei ritmi afrocubani, i rituali.  Da questi incontri incominciò il mio desiderio di mischiare quelle sonorità latine con quelle nordamericane bianche e nere, blues, country, folk e jazz  che avevo appreso dai dischi o addirittura visto suonare nella mia casa californiana da tipi come Sonny Terry, Pete Seeger o Brownie McGhee. Nelle mie passioni adolescenziali c’era anche il beat e il rock. All’inizio degli anni Settanta fui invitato, anche perché serviva un chitarra elettrica, a far parte del Grupo de Experimentacion Sonora (GES), si studiavano tutte le musiche del mondo e anche la cubana, e in questo collettivo musicale c’erano nomi importanti come Leo Brouwer o Federico Smith, statunitense residente a Cuba. Dopo questa esperienza suonai con diverse formazioni tra cui Sintesis di Carlos Alfonso e Sonido Contemporaneo del jazzista Nicolás Reinoso con cui suonò anche l’allora giovanissimo Gonzalo Rubalcaba.

Così, strada facendo, è sbocciato Mezcla. Esattamente come e quando? E ora nella band c’è ancora qualche co-fondatore?

Il nostro progetto partì amalgamando Nueva Trova,  rock, blues, soul, jazz afrocubano, son,  rumba, reggae e inserendo gradualmente elementi di musica yoruba, abakuà e disegni ritmici dei tamburi batà.  Creammo Mezcla nel 1985 e sono rimasto soltanto io di quei fondatori; nel corso degli anni sono passati nella mia band i migliori jazzisti cubani, da un po’ di tempo è quasi fisso Mayquel Gonzalez, uno dei migliori trombettisti a livello mondiale, ha suonato con Chucho Valdés e altri che non sto a ricordarti. Il veterano del gruppo  è però Octavio Rodriguez, che entrò nel 1987 e come hai visto suoniamo ancora assieme. Ricordo il suo arrivo nella band perché ero appena ritornato da una lunga tournée in Europa e in Irak, esattamente a Bagdad nel periodo della guerra Irak-Iran. Octavio è uno dei percussionisti cubani più stimati dai musicisti di ogni genere, conosce la Regla de Ocha, una delle religioni sincretiche di origine nigeriana molto seguita a Cuba e tutti i canti e ritmi di questo culto.  Espertissimo con le congas e da solo suona la triade dei batà: tu sai che servono sei mani per eseguire le poliritmie e una voce per intonare i canti in lingua. Bene,  lui è in grado di fare un’ottima sintesi con due mani più la voce, e qui un percussionista che ha un tale spessore riceve dai musicisti il titolo di «rumbero mayor». E’ abilissimo nel combinare le percussioni afrocubane con il jazz, il rock latino o il blues cubano.

Perché blues cubano?
A differenza di quanto avviene in paesi ispanoamericani come Messico, Argentina e altri ancora, qui c’è una scuola di canto blues in spagnolo. A Cuba non c’era mai stato un movimento di blues e noi siamo uno dei rarissimi gruppi che lavora su questo.  Parlando di blues ho visto che in altre culture del mondo questo stile musicalmente viene assimilato bene mentre i testi sono deboli,  delle banali traduzioni dall’inglese. Noi invece facciamo alla rovescia: partiamo da un buon testo che abbia senso ritmico in chiave blues cui aggiungiamo la musica. Per noi è basilare che tutto sia autentico, veritiero, deve venire dal cuore e non da un’onda modaiola.

Los Hombres Calientes di New Orleans, da loro punto di vista mi sembra si comportino più o meno così con i ritmi afrocaraibici.  Li conosci e cosa ne pensi?

Certo che li conosco e si muovono all’incirca così come ha detto. A proposito di questo gruppo ti racconto un fatto divertente: nel periodo che stavano formando il gruppo venivano spesso da New Orleans a vedere i nostri concerti a Cuba e ci filmavano. Un giorno la nostra manager svizzera si arrabbiò e stava mandando via il percussionista di quel gruppo: la fermai dicendole che era un amico e poteva filmare perché ci avrebbe mandato una copia del video. Ora tutte le volte che vedo quel musicista in giro per il mondo si ricorda che mi deve  quella copia.

E’ una leggenda  o una verità che per un visto negato hai suonato con Carlos Santana?

Per entrare negli Stati Uniti i cubani devono chiedere il visto all’ambasciata mentre io no. Per questo problema dei visti non concessi spesso saltavano le tournée per la mia band, ma io andavo ugualmente e tenevo conferenze sulla musica cubana nelle Università e spiegavo anche le cose che succedevano con  Cuba. Sì nel 1993 suonai assieme a Santana e andò così: dei dieci musicisti della mia band solo la metà poté entrare negli Stati Uniti e per mantenere gli impegni chiesi aiuto a diversi artisti locali.  Carlos fu uno dei primi a raccogliere il nostro invito per suonare assieme a San Francisco: ci incontrammo direttamente sul palcoscenico senza aver fatto prove, filò tutto liscio come avessimo sempre suonato assieme, tra di noi c’era grande similitudine musicale e fu facile. Con Obama le cose oggi sono un po’ cambiate e possiamo scaricare le nostre note negli Stati Uniti.

A proposito di note, quante ne sono passate sotto il ponte della tua chitarra dal tuo primo disco o dalla famosa Rio Quibú fino ad oggi?

Delle navi di note, ho fatto centinaia di concerti, decine di tour internazionali, ho collaborato con artisti mondiali come Chico Buarque,  centinaia di lezioni come docente di chitarra elettrica all’Ena.  Poi i dischi: «Hijos de la Mezcla» è il primo album uscito nel 1987, «Cantos, Lazaro Ros Y Mezcla» (1992), cd importantissimo a livello culturale; «Akimba» (2002) è il primo nostro cd di vero latin jazz; e poi l’ultimo cd è stato prodotto a New York, «I’ll SeeYou In Cuba»** (2010), contenente anche omaggi  in stile Mezcla a grandi del jazz come Michael Brecker, Chucho Valdés, Thelonius Monk o Gershwin con una rilettura di I Got Rhythm che diventa ¿Quién Tiene Ritmo?

Dopo circa trent’anni di attività, in Mezcla c’è più jazz o ritmo afrocubano?

Predomina il jazz cubano, negli ultimi anni abbiamo lavorato di più su questo versante e con una certa continuità. Da oltre sette anni siamo spesso al club jazz avanero La Zorra y el Cuervo. E forse sarà anche perché il jazz  permette di stagionarti, o invecchiarti, più elegantemente che rock o altri stili. Quando guardo i Rolling Stones, oggi mi sembra tutto molto bello ma arriverà un momento che fisicamente non potranno più fare ciò. Se devo scegliere, il mio modello è Compay Segundo andato in scena fino a novantacinque anni.

Gian Franco Grilli

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