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Filippo Bianchi: Nuove frontiere della didattica jazz

20. marzo 2015 – 17:08One Comment
Filippo Bianchi: Nuove frontiere della didattica jazz

Il Maestro disse: “Un tempo si studiava per migliorare se stessi,oggi si studia per impressionare gli altri”. Confucio

Editoriale di Filippo Bianchi (PAN, n.1/2015)

Come la nostra epigrafe confuciana dimostra, il problema di un buon uso dei saperi non è certo nuovo.

Storicamente, i rapporti fra il jazz e il suo insegnamento non sono stati dei più sereni. Numerosi i grandi musicisti che hanno avuto momenti difficili quando, giovanissimi, si sono misurati con l’apprendimento musicale: rifiutati dai conservatori, cacciati via o scoraggiati… Personalmente l’ho sentito raccontare da Steve Lacy, Jack Bruce, Misha Mengelberg, Willem Breuker, Albert Mangelsdorff…

In generale, fra quelli della mia generazione, i più erano autodidatti: il metodo più diffuso per studiare il jazz era quello di suonare sui dischi. Ora è tutto un fiorire di scuole dedicate a questa musica, soprattutto nel Vecchio Continente, dalla Sicilia alla Finlandia e dal Portogallo ai Balcani.

È una buona notizia, non foss’altro che perché il jazz ha valori formativi che vanno ben al di là dell’aspetto musicale (ma su questo ritorneremo). Ed è un bene che se ne sia accorto anche il sistema educativo istituzionale, che lo ha da tempo equiparato alle altre musiche: infatti le cattedre di jazz nei conservatori sono numerose ed affollate; anzi, alcuni conservatori si tengono in piedi solo grazie all’alto numero di studenti di quelle classi.

Soltanto che ormai, perlomeno in Europa, l’investimento pubblico sulla didattica jazz ha superato quello sull’attività concertistica, che invece forse non è una notizia proprio ottima, o quantomeno è un dato piuttosto contraddittorio. Infatti da un lato, attraverso un insegnamento tutto finalizzato all’attività professionale, cresce esponenzialmente il novero di giovani musicisti che legittimamente vogliono accedere al mercato e trovare un uditorio, dall’altro il mercato della concertistica non si espande, anche per via della generalizzata contrazione dell’investimento pubblico, che non aiuta a tener bassi i prezzi dei biglietti. Cresce la platea dei “venditori” e si contrae quella dei “consumatori”: sempre più gente vuole suonare, ma sempre meno persone sono disposte a pagare un biglietto per ascoltare. Chiaro che in una situazione così difficile e competitiva, molti ripiegano inevitabilmente sull’insegnamento, e così finisce che il sistema alimenta se stesso, più che aprire le porte di un’attività professionale.

Come uscire da questa inquietante divaricazione?

Una modesta proposta: forse la “nuova frontiera” della didattica jazz dovrebbe superare l’aspetto, pur importantissimo, dell’“alta specializzazione” e della preparazione professionale, e allargarsi alla scuola dell’obbligo, come materia in sé, o come una branca della filosofia, tali e tanti sono i valori formativi che trasmette. Personalmente ritengo che la formazione jazzistica sia servita alla mia vita assai più dell’apprendimento di tante altre materie considerate fondamentali, anche perché ha portato con sé una visione del mondo ampia e cosmopolita, la metabolizzazione di principi basilari: mi ha tenuto al riparo da ogni razzismo, edotto sulla ricchezza della molteplicità culturale, sull’importanza dell’ascolto, della predisposizione a intendere l’altro; l’enfasi sull’improvvisazione ha affinato la capacità di trovare istantaneamente soluzioni ai problemi e a reagire propriamente alle sollecitazioni.

A Ravenna, dallo scorso anno, abbiamo cominciato a ragionare su questi temi, dando vita ad un’iniziativa intitolata “Pazzi di jazz”, e rivolta alle scuole di ogni ordine e grado, dalle elementari ai licei. Gli esiti sono stati, sia detto senza enfasi, davvero entusiasmanti. Già i primi incontri della seconda edizione (in corso mentre scrivo) mostrano quanto i bambini e i ragazzi siano ormai contagiati da questo “virus benefico” e curiosi di conoscere meglio ciò che solo ieri pareva loro ostico ed estraneo, o era semplicemente sconosciuto.

È chiaro che occorre studiare molto per presentarsi su un palco a suonare, ma se vogliamo che chi fa quella scelta non abbia di fronte una platea vuota o distratta o incompetente, altrettanto importante è l’apprendimento dell’ascolto. E d’altra parte, cosa può capitare di meglio a un musicista che avere di fronte un pubblico consapevole e informato?

E non è solo un problema del jazz: pare ad esempio che la voga dei “corsi di scrittura” stia per essere opportunamente soppiantata da quella dei “corsi di lettura”; va bene esser tutti scrittori, ma se poi siamo il Paese europeo in cui si legge meno, per chi stiamo scrivendo?

(Questo editoriale è stato pubblicato su PAN – Performing Arts Network – n.1, Febbraio 2015)

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