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Jazz e nuova “cascata di ritmi” firmati da Aruán Ortíz

9. luglio 2020 – 15:34No Comment
Jazz e nuova “cascata di ritmi” firmati da Aruán Ortíz

ARUÁN ORTÍZ  With ANDREW CYRILLE and MAURICIO HERRERA
«Inside Rhythmic Falls». Pubblichiamo la recensione (già apparsa sul mensile Musica Jazz, giugno) del nuovo album di Aruan Ortiz (p., voc.), Andrew Cyrille (batt.) e Mauricio Herrera perc., voc.) registrato a New York nel  maggio 2019, e uscito nei primi mesi del 2020 per l’etichetta discografica svizzera Intakt records.
Se Harold López Nussa, Rolando Luna o Roberto Fonseca rappresentano, con stili diversificati, gli interpreti più vicini alla matrice del piano jazz afrocubano, il collega Aruán Ortíz da tempo cerca di liberarsi dalle catene della clave (pilastro su cui si è eretto l’edificio di tutta la musica cubana moderna) riesumando e convertendo espressioni ancestrali del patrimonio ritmico dell’Oriente cubano in jazz avant-garde. Dopo essere transitato un po’ lateralmente per avventure jazzistiche e accademiche europee, il pianista-compositore santiaguero di stanza a New York da inizio secolo si è rivelato al pubblico internazionale con una manciata di progetti innovativi, tra cui «Hidden Voices» (Intakt, 2016), e ora sempre in trio, il suo formato preferito, con «Inside Rhythmic Falls» (Intakt, 2020) per confermare il suo tortuoso percorso artistico volto a riagganciare l’anima afro-haitiana unendo musica, poesia, ritmi sincretici, misconosciuti strumenti, riferimenti alle musiche africane, molteplici influenze musicali e artistiche astratte. Di fronte a musiche dissonanti e che cambiano continuamente direzioni senza lasciarsi afferrare non è sempre facile giungere fino all’ultima nota. Ma i più testardi, come chi scrive, non desistono soprattutto se di mezzo c’è la cultura afrolatina ancorchè poco comprensibile all’istante. E’ il caso di questa “cascata di ritmi” di cui abbiamo tentato di capirne in profondità l’essenza, com’è fatta. Non è stato facile poiché servono più chiavi per poter accedere all’interno di un edificio sonoro abbastanza enigmatico e complesso, edificio che riflette la versatilità e lo spirito libero dell’autore cubano. In sintesi, si fa per dire, ciò che spicca e che può orientarci lievemente in questo progetto è il rullare dei tamburi africani-americani che scandisce la marcia delle dieci tracce tra spiritualità, poesia e improvvisazione. Attraverso il ritmo si narrano pagine di storia, espressioni culturali e religiose, incorniciando i “protagonisti” di questa regione caraibica in cui è cresciuto Aruán. Incontriamo stilemi primordiali come nengón e changüi che hanno nutrito il fenomeno musicale del Son: Para ti Nengón, affida alla parola il comando ritmico-vocale per celebrare Guantanamo, Santiago, Holguin mentre il pianoforte si lancia in commenti frizzanti; la boppeggiante Golden Voice elabora un tributo a Carlos Borromea Planche, noto interprete di changüi. Centrali poi sono le musiche rituali e sincretiche a cui il pianista ha saputo accoppiare con saggezza il suo tocco irrequieto e le mille idee che gli frullano in testa per ottenere una musica allargata senza confini e con commistioni insolite. E per fare ciò non poteva che partire da quel calderone spirituale che è Cuba con la sua moltitudine di sincretismi popolari tra cui qualcuno abbastanza di nicchia e che si intreccia ad altri.

Ortìz, Cyrille, Herrera

L’esordio, infatti, è affidato alla divinità del sistema magico-religioso del Palo Congo o Palo Monte Lucero Mundo (il corrispettivo di Elegúa della Santería) facendo l’appello ad altri elementi sincretici congolesi Bantu come Mayombe, Briyumba, Kimbisa mentre il drumming di Andrew Cyrille e le percussioni cubano-haitiane di Mauricio Herrera creano un tappeto ritmico e timbrico dando enfasi alla parola con frammenti declamati dalla poetessa Marléne Ramírez-Cancio. Questi vengono ripresi, ripetuti e mescolati ad altri frammenti dallo stesso Ortiz, a cui segue la reiterazione fonetica, come rinforzo del messaggio, della cantautrice Emeline Michel creando una sorta di incantesimo circolare in memoria degli antenati Bantu e del Regno del Congo. Ortiz allarga l’ indagine ad altre tradizioni geograficamente periferiche alla sua, come quella della confraternita machista abakuà cui viene dedicato il meditativo De Cantos y ñáñigos; poi sfila Argelier’s Disciple per omaggiare due studiosi come l’etnomusicologo Danilo Orozco e il suo maestro Argeliers Léon.

Infine si rispolverano dall’oblio strumenti in via di estinzione anche nell’Oriente cubano: la marimbula (parente della sanza, o thumb-piano per gli inglesi) impiegata in chiave percussiva in Marimbula’s Mood; la quijada de burro (mascella d’asino) il cui effetto sonoro, provocato dal piano preparato, spicca in Inside Rhythmic Falls. Part I, che ritmicamente è il momento apicale di tutta la lunga carrellata poliritmica incrociando ritmi gagà, vodù, tumba francesa, clave afro in 6/8 e il cui il vero mattatore è l’energico ottuagenario Andrew Cyrille. Il batterista afroamericano (di origini haitiana) ha mostrato grande freschezza in questa interazione con Ortiz e Herrera, una triangolazione originale (facilitata anche dalla condivisa origine afrohaitiana dei tre musicisti della partita) che permuta in continuazione per rimodulare il febbrile e irrequieto concetto avant-garde, la cifra-mission di Aruán Ortiz, che tiene sempre d’occhio il motto chicagoano “The Ancient To The Future” per connettere passato e presente, tradizione e modernità di tutte le arti nere. Restituire i ritmi afro-cubani e afro-haitiani con un vocabolario jazzistico contemporaneo risulterà un po’ indigesto ai latinjazzofili, ma certamente soddisferà i palati più raffinati e dotati della naturale visione multiculturale del jazz.

(Gian Franco Grilli)

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