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Puerto Rico: Charlie Sepúlveda e l’hard latin bop

18. giugno 2021 – 23:11No Comment
Puerto Rico: Charlie Sepúlveda e l’hard latin bop

Nato nel Bronx da genitori portoricani, Charlie Sepúlveda, uno dei più interessanti trombettisti e protagonisti del latin jazz, da oltre vent’anni risiede nell’Isla dell’Encanto per condurre una vita a misura d’uomo a contatto con la natura caraibica che ha trovato a Luquillo, località nordorientale di Puerto Rico distante circa 40 minuti da San Juan. L’abbiamo raggiunto per ripercorrere la sua storia e la sua vicenda nel mondo del jazz.

Intervista di Gian Franco Grilli

CHARLIE SEPÚLVEDA: suono hard latin bop

Nato nel Bronx da genitori portoricani, Charlie Sepúlveda, uno dei più interessanti trombettisti e protagonisti del latin, da oltre vent’anni risiede nell’Isla dell’Encanto per condurre una vita a misura d’uomo a contatto con la natura caraibica. E dalle lunghe passeggiate quotidiane sulle spiagge più belle del mondo “trovo l’ispirazione per continuare la fusione tra gli stilemi del jazz e la ritmicità afrocaraibica”. Dietro il suo carattere umile, timido, tranquillo, disciplinato, sensibile, casalingo, si nasconde però una tromba eloquente, limpida, abilissima nell’improvvisare brillanti e carezzevoli melodie. Dalla salsa al jazz il passo è stato brevissimo ma durante la sua lunga carriera si è cimentato anche nel rock e tra i suoi sogni futuri ci sarebbe Sting. L’abbiamo intervistato in occasione dell’uscita di «Mr. E.P. – A Tribute to Eddie Palmieri», il suo undicesimo album da solista.

Charlie, sei in vacanza o in tournée nell’Isla del Encanto?

No, io sono tornato a vivere a Puerto Rico nel 1996 dopo aver trascorso anni a New York sia studiando privatamente che suonando con gruppi. Ora risiedo a Luquillo, una località nordorientale dell’isola che dista circa quaranta minuti dalla capitale San Juan. Qui si svolge la mia vita come tutti i comuni mortali, affronto le cose quotidiane di una casa e ho appena steso i panni del bucato, per questo ho ritardato un po’ la nostra chiacchierata e me ne scuso. Naturalmente quando ho un po’ di tempo libero mi piace fare delle passeggiate sulla bellissima spiaggia a pochi passi da casa mia. Eppoi curo la rubrica radiofonica Yunque Jazz (92.9 fm – Yunque93.com) il sabato dalle 16.30 alle 18. Poiché sono un cattolico praticante, la domenica seguo le funzioni religiose della Chiesa e suono alla messa.

E la musica come professionista quanto e come ti impegna?

Sono professore di jazz nel Conservatorio di San Juan e dirigo quattro differenti gruppi di musica. Poi ogni fine settimana suono nella capitale in diversi contesti, salvo quando sono invitato a suonare negli Stati Uniti e in futuro spero anche in Italia, se ti darai da fare per venire con la mia band (ride). Nell’Isola si stanno facendo abbastanza festival di jazz, pur se di piccole dimensioni, ma si suona soprattutto nei ristoranti o negli hotel. Io ad esempio lavoro in tre strutture alberghiere nei fine settimana: il giovedì suono in duo con un pianista; il venerdì nel Condado Vanderbilt Hotel e il sabato con la big band di quindici elementi all’Hotel San Juan. Il repertorio è di latin jazz, mambo e diversi arrangiamenti di canzoni in chiave jazz, temi che hanno anche una discreta dose di ballabilità.

 

E ora facciamo un salto indietro nel tempo e parlaci dei tuoi primissimi passi.

E allora da Porto Rico ci spostiamo a New York, nel Bronx, dove sono nato il 15 luglio 1962 da genitori portoricani e lì ho vissuto fino a otto anni ma mi sento portoricano. Poi nel 1970 ci trasferimmo a Caguas, un municipio della zona centrale di Porto Rico. Nel Bronx il mio avvicinamento alla musica fu una cosa molto elementare, strimpellavo il flauto dolce nella scuola pubblica. In casa nessun musicista, i miei ascoltavano la musica romantica dei Los Panchos oppure il bolero dei trii in voga in quegli anni, mentre i miei fratelli (io sono il minore di sei) erano amanti della salsa e ascoltavano Tito Puente, Tito Rodriguez, Eddie Palmieri, ma anche Stevie Wonder, Beatles e il rock pop internazionale. Quindi sono cresciuto con queste sonorità e a dodici anni iniziai i miei primi studi musicali con la tromba alla Escuela Libre de Musica di Porto Rico, il programma di studi era prevalentemente classico ma anche qualcosina di musica per marching bands. Entrai prestissimo nella big band della scuola che suonava brani di swing e standard di jazz e a quindici anni ero già musicista professionista suonando con tutte le più importanti orchestre di salsa e musica latina di Porto Rico e seppure se ne parli poco ho lavorato anche con Batacumbele. Poi a diciotto mi diplomai al Conservatorio.

 

E cosa ricordi dell’esperienza di Batacumbele?

Un gruppo rivoluzionario dove militavano Giovanni Hidalgo, Cachete Maldonado, Eric Figueroa eccetera, una sorta di Irakere portoricano. Si trattava di una formazione formidabile con una proposta sonora molto innovativa, un mix di songo, ritmi afroportoricani (bomba, plena) e afrocubani (rumba, mambo, son) con armonie nettamente jazzistiche. In sostanza non era ballabile come la salsa ma piaceva moltissimo anche a Cuba, dove la band andò a suonarvi ma io purtroppo avevo un altro impegno. E nella Perla del Caribe purtroppo non sono ancora andato.

 

Ti sei fatto le ossa con la salsa, un genere dove i cantanti portoricani hanno dominato la scena per tanto tempo, da Ismael Miranda a Bobby Cruz a Hector Lavoe. Quali sono le tue collaborazioni più importanti in questo ambito?

Mi collego a quanto detto prima perché suonavo in orchestre sempre in bilico tra salsa, musica latina in generale e latin jazz, pertanto tra le tante collaborazioni cito Willie Rosario, Roberto Roena, Sonora Ponceña, Bobby Valentin e… quindi con i migliori, tra cui anche Hector Lavoe, e naturalmente quelli della Fania All Stars.

 

Questo significa che da Porto Rico ti spostavi negli Stati Uniti? E c’è un disco in particolare che ti è rimasto sempre nel cuore?

Beh, andai a New York quando avevo circa diciannove anni e lavorai subito con Ray Barretto e poi con altri. Un album che mi ha segnato nella mia formazione musicale? «The Sun of Latin Music» di Eddie Palmieri che nel 1975 vinse il suo primo Grammy; ascoltavo in continuazione i pezzi di quel disco.

 

E proprio all’ottantenne “rumbero del pianoforte” hai dedicato il tuo ultimo album.

Per celebrare il suo ottantesimo compleanno abbiamo suonato al Lincoln Center di New York assieme al Maestro Palmieri, di cui sono cugino dalla parte di mia madre. «Mr. EP – A Tribute to Eddie Palmieri» (HighNote, 2017) non è nato per celebrare i suoi ottant’anni, ma è un ringraziamento speciale per aver imparato molto negli anni che suonai nella sua banda. Il disco è un tributo al suo modo di interpretare il latin e alla forma con cui crea la sua musica: l’ho inciso pensando a come lui l’avrebbe realizzato, inserendo anche elementi urbani come il brano Si Tu Sabes che è hip hop latino, oltre ovviamente a pezzi come Mr.Jazz, Bomba Pa’ Carmen eccetera.

 

Ray Barretto amava interpretare Nadie se salva de la rumba, ritmo che mi sembra di percepire anche in Peer Magic, trascinante traccia n.6 del disco-tributo. E’ così o è un’altra sonorità afrocubana?

Può essere in sintonia con la rumba, ma il pezzo è strutturato come timba che in sé contiene anche la rumba e che a sua volta ispira il latin jazz. La prima stesura è nata così: stavamo facendo le prove e dissi al bassista di inventarsi un groove in sol minore: quella linea di basso mi piacque tanto e così ci ricamai su una melodia, poi su quell’unico accordo depositammo le nostre improvvisazioni, una buona descarga che ho chiamato Peer Magic.

La bomba, ritmo portoricano per eccellenza (con elementi comuni con la cubanissima rumba columbia ) è presente nel tributo a Palmieri, ma la “sorella” plena è trascurata. Spiccava invece nel frenetico Mr. B.B. (in «Algo Nuestro» e «Watermelon Man»): ma chi si nasconde dietro quelli sigle?

Sì, stavolta non c’è plena, ma è uno stile che mi piace perché è un’espressione musicale molto allegra, un ritmo frizzante, ricco di calore in 2/4 con un andamento molto sincopato come hai potuto senitre in Mr.B.B, che lo dedicai a Brian Bacchus, il mio primo produttore con l’etichetta Antilles. La bomba, come dicevi, è più simile allo spirito rumbero dove si intraprende un dialogo tra tamburi e ballerini, come nella rumba columbia di Cuba.

Ma tra gli stili boricua qual è quello che si sposa meglio con il tuo jazz?

Sono diversi gli stili che impiego ma lavoro molto con la danza (una delle più importanti forme del nostro patrimonio musicale di origine europea) che però è differente dal punto di vista ritmico dalla danza cubana dove nella parte del montuno si trasforma in cha cha. Nella danza portoricana non c’è questo cambio ritmico, si mantiene sulla forma del paseo, che è la parte introduttiva, con il ritmo scandito sul rullante, tipico della tradizione europea. E pensa che la musica del nostro inno nazionale, La Borinqueña del 1867, era a ritmo di danza e credo sia l’unico inno al mondo che si possa un po’ ballare. Qui però non si usa la percussione latina come le pailas o timbales, e l’unico strumento a percussione che utilizziamo nella danza portoricana è il güícharo.

 

Vuoi dire la versione portoricana del güiro, re nel danzón e nella contradanza, che all’inizio del Novecento a Cuba stava a fianco dei timpani creoli con la funzione di marcare il tempo. Il güícharo o güiro (ottenuto da una corteccia secca di cucurbitacea, una zucca allungata) venne addirittura citato da Louis Moreau Gottschalk a metà dell’Ottocento in una delle sue visite a Porto Rico cui dedicò, tra l’altro, la contradanza La Ponceña.

Maravilloso, mi era sfuggito questo dato storico del lavoro pioneristico di Gottschalk e non sapevo di quei dettagli che hai appena illustrato e ti ringrazio. Nella nostra tradizione il güícharo viene sfregato con una sorte di pettine di metallo o di legno, mentre con il güiro cubano (molto usato nella salsa) il ritmo si ricava con una bacchettina.

 

Da più parti si legge che il tuo esordio discografico fu con Eddie Palmieri in «La Verdad»” (1987), ma risulta che avevi già inciso anche prima e non poco. E’ vero?

Verissimo: la mia prima registrazione fu all’età di quindici anni in un disco con il cantante salsero Chamaco Rivera. E prima del disco con Eddie avevo fatto numerose registrazioni con altri gruppi, ne cito solo alcuni:, Orquesta La Masacre, poi con la band di Bobby Valentín, Frankie Ruiz, Sonora Ponceña. Probabilmente si vuole dire che «La Verdad» è il mio esordio assieme a un nome di fama mondiale come Palmieri. Grazie per la chiarezza.

 

Nella salsa e nel latin jazz la percussione è fondamentale e nella tua carriera hai avuto al tuo fianco alcuni dei migliori congueros del mondo e tutti, o quasi, sono portoricani doc. Come spieghi l’eccellenza di Porto Rico in un settore sempre dominato dai cubani, i veri depositari di quei pattern e tumbao che hanno conferito maggior africanità al jazz?

E’ vero ho avuto la fortuna di suonare con i nomi più prestigiosi dell’arte percussionistica e mi sento orgoglioso di tutti loro perché oltretutto sono miei connazionali come Giovanni Hidalgo, Richie Flores, Paoli Mejias, Anthony Carrillo e includerei anche Gadwin Vargas, un talento che suona con me da alcuni anni. Qui c’è una fortissima tradizione del tamburo, poi Cuba è vicina, e succede ogni tanto che l’allievo superi il maestro. Aggiungo però una cosa che ti sorprenderà: il mio conguero preferito è Jerry González, mi affascina come riesce a ritmare e a creare melodie con le sue mani. Per evitare equivoci di omonimia dico che è lo stesso trombettista, famoso aver suonato con il mondo intero da Tito Puente a Eddie Palmieri a Gillespie, poi è co-fondatore di Fort Apache.

 

Puente criticava il termine salsa. Per te cosa rappresenta la salsa ma soprattutto il latin jazz?

Domanda tostissima e adesso è un problemino risponderti. Non solo a Puente ma anche ad altri non piaceva questa definizione. Per me salsa simbolizza l’identità culturale degli ispanoamericani, una sorta di cordone ombelicale dei latinos con le origini radicate nel Continente sudamericano. Il latin jazz lo considero una forma di orgoglio per rivendicare la mia latinità ed è musica totalmente nuova, frutto di una complessa sintesi tra culture diverse fatta di elementi ritmici e strumentali afrocaraibici (e in seguito di tutta l’America latina), ingredienti armonici e improvvisativi del jazz e di altre musiche afroamericane. Il nostro latin credo sia più jazzistico rispetto a quello che circola in giro. Io sono cresciuto ascoltando e ascolto ancora i dischi hard bop della Blue Note di Lee Morgan, Herbie Hancock, Hank Mobley e…«Afro-Cuban» di Kenny Dorham è stata per me come una pietra miliare elaborata con artisti come Horace Silver, Art Blakey e il cubano “Patato” Valdés . Quelle sonorità mi hanno influenzato moltissimo e il mio gruppo l’ho sempre idealizzato pensando a un quintetto hard bop di quegli anni con pronunce latine. Pertanto direi che suono hard latin bop, o qualcosa di simile.

 

Parliamo di tromba: nel latin che ruolo gioca?

Poiché lo ritengo il re tra gli strumenti nel jazz, io penso che nel latin la tromba sia il solista più adatto per dialogare con lo schema basilare del concetto di clave e in grado di esprimere il carattere allegro ed estroverso dei caraibici, lo spirito del carnevale, della calle; i sovracuti e il virtuosismo eccessivo vogliono esprimere l’esuberanza latina. Ma io cerco di costruire un sound personale, più rilassante, più pacifico tra i colori boricua e quelli afroamericani, adoro le sonorità rotonde, melodiose, carezzevoli, non le cose dissonanti, estreme.

A proposito, qualche dissonanza esiste però in Charlie’s Whole Tone Blues che Eddie Palmieri ti ha dedicato proprio in «Mr.E.P.».

Fa parte della sua modalità di mescolare latin con Monk, Tatum, Mc Coy Tyner e in quel brano Eddie usa una scala di tono completo che suona in modo dissonante. Per completare il discorso della tromba nel latin, non volevo sminuire il ruolo di altri strumenti: infatti nelle mie formazioni il sassofono tenore ha anch’esso enormi potenzialità fin dagli anni Novanta quando avevo con me il portentoso David Sánchez e ora ho Norberto Ortiz, bravissimo.

Intervista su Musica Jazz, ottobre 2017

 

Tra Kenny Dorham, Dizzy Gillespie, Freddie Hubbard e Morgan chi preferivi?

Sono tutti dei grandissimi artisti, a cui bisogna aggiungere il mito Davis, ma colui che mi ha fatto impazzire è stato Lee Morgan, lo ascolto ancora oggi tantissimo perché ha un soul, un’anima speciale con un’intensità affascinante. Però la ritmicità che ho riscontrato in Gillespie è insuperabile e l’ho capita soprattutto lavorando un po’ con la sua band di cui ricorderò sempre la prima tournée con lui ed io alle trombe poi c’erano Steve Turre, David Sánchez, Ignacio Berroa e anche artisti africani del gruppo di Miriam Makeba. Dizzy ti ispirava solo a stargli vicino, ed è stata un’esperienza incredibile.

Nella storia del trombettismo latin spiccano i cubani El Negro Vivar, Chocolate Armentero, Leonardo Timor, poi Arturo Sandoval, Jorge Varona, Jesus Alemany e Reynaldo Melián. Chi sono invece i tuoi connazionali colleghi di strumento più meritevoli?

Juancito Torres, Luis «Perico» Ortíz, Elías López García, poi citerei anche Humberto Ramirez, Piro Rodriguez, e i nuyoricans Jerry Gonzalez, Ray Vega (omonimo del cantante). Un giovane che farà parlare di sé è Gabriel Duprey, totalmente boricua.

Quali sono gli elementi che curi maggiormente: il suono, il fraseggio, il virtuosismo o l’intonazione?

Certamente tutti quelli menzionati e aggiungendo attenzione alla melodia. Voglio che la mia musica sia gradevole per le orecchie degli ascoltatori e raggiunga l’anima della gente, che trasmetta emozioni a pubblici differenti, giovani e meno giovani. Io mi limito a questo e non condivido tanto quelli che in un disco cercano di infilarci una montagna di cose; poi le prove muscolari con la tromba mi lasciano indifferente; non amo quei progetti musicali tanto complicati da far venire mal di testa: io non ho bisogno di impressionare nessuno.

 

Il formato che preferisci per i tuoi concerti?

Tromba, sassofono, piano, basso, batteria e congas sono gli strumenti che prediligo e i più adatti per tradurre i miei pensieri musicali.

 

Scorrendo la tua discografia ho visto anche pezzi di Rafael Hernández, leggendario compositore portoricano che un secolo fa suonava già negli Usa.

Glielo dobbiamo, lui rappresenta parte del nostro patrimonio musicale. Polistrumentista, prolifico compositore tra cui i famosi Lamento borincano, El Cumbanchero e… anche Cachita che ho inciso in «Feeling Good Again» (2003). Cachita è una canzone in stile guaracha dedicata alla Vergine Carità del Cobre, patrona di Cuba, terra dove Hernández all’inizio degli anni Venti andò a vivere per cinque anni. Ma prima andò negli Stati Uniti (e fu il primo musicista boricua a sbarcarvi) e sapendo suonare diversi strumenti venne incorporato assieme a un fratello nella banda dell’esercito statunitense presente in Europa durante la prima guerra mondiale, una vita da raccontare. Se posso, citerei anche un altro portoricano importante che giunse più o meno nello stesso periodo a New York, il trombonista Juan Tizol autore di importanti pagine nella storia del jazz. Caravan, Perdido e altri suoi pezzi sono diventati degli standard immortali e lui, che era la mano destra di Duke Ellington, a mio parere andrebbe messo anche tra gli artefici della nascita del jazz afrocubano. Hernández e Tizol sono stati nostri grandi ambasciatori musicali in grado di aprire la strada alle nuove generazioni e meritano riconoscenza.

 

Secondo te, quindi, il primo documento di latin jazz chi l’ha firmato?

Io credo che la nascita di uno stile sia frutto di esperimenti e contaminazioni che avvengono nel tempo. Dicendo dell’importanza di Tizol non volevo mettere in discussione la tesi di studiosi secondo i quali il primo brano di latin jazz è Tanga di Mario Bauzá. Concordo anch’io, ma le radici penso siano più profonde arrivando fino ai primi musicisti ispanoamericani presenti a New Orleans, il famoso Spanish Tinge che citava Jelly Roll Morton.

 

E parlando di celebrazioni, un secolo esatto fa i portoricani ottennero dal Congresso USA la cittadinanza statunitense. Ciò nonostante i pregiudizi furono fortissimi verso la comunità boricua emigrata a New York spesso associata alla malavita, alle lotte violente tra le bande, tra cui quella degli Sharks e la nordamericana Jets per il controllo del territorio. Oggi come vanno le cose?

Ci sono moltissimi latinos che desiderano la cittadinanza statunitense ma francamente non so dirti se è una cosa buona o cattiva. Come musicista non penso a questo poiché per me siamo tutti uguali e mi impongo di cercare sempre il lato positivo e la musica ci aiuta in questo. A livello generale posso dirti che la situazione la vedo migliorata, tuttavia un pochino di spirito discriminatorio verso la nostra comunità si percepisce ancora. Nell’Isla poi c’è dualismo tra chi ha scelto di diventare parte integrante degli Stati Uniti e chi invece vorrebbe l’indipendenza. Una situazione abbastanza complicata se pensiamo al fatto che noi abbiamo un’altra lingua con tradizioni culturali e costumi diversi. Io preferisco avere la libertà di poter negoziare e realizzare affari con il resto del mondo, ma purtroppo Porto Rico è un territorio occupato dai nordamericani che continuano a fare ciò che vogliono e alcune cose in modo non tanto legale.

 

Nella tua carriera vanti anche collaborazioni con musicisti rock. Un musicista con il quale vorresti condividere il palcoscenico in futuro?

Ho lavorato anche fuori dal jazz e dal latin incidendo diversi album con gruppi importanti come Talking Heads, David Byrne e altri. Mi sarebbe piaciuto fare concerti con loro ma sono state solo collaborazione discografiche. Invece, anche se un po’ distante dalla musica che suono oggi, mi piacerebbe moltissimo suonare con Sting, mi affascina il suo mondo musicale.

 

All’inizio esprimevi il desiderio di venire in Italia. Ma conosci il nostro Paese e alcuni dei nostri migliori trombettisti, Enrico Rava, Paolo Fresu o Fabrizio Bosso?

Sono già stato in passato e mi piace moltissimo l’Italia, però vorrei venire con la mia orchestra perché le altre volte ero con i gruppi di Eddie Palmieri e credo anche con la Tito Puente Golden latin Jazz All Stars, una delle più belle e importanti esperienze musicali della mia vita girando tutto il mondo. Purtroppo non conosco musicisti italiani e l’unico di cui ho sentito parlare è Andrea Giuffredi.

 

Nuovi progetti discografici?

«To Benny with Love», freschissimo di stampa, che è un omaggio alla musica popolare del grande artista cubano Benny Moré, molto conosciuto nel mio Paese. Il disco è stato realizzato con la mia orchestra assieme al cantante di origine cubana Jon Secada.

Gian Franco Grilli

foto: Cortesia di Charlie Sepulveda- Salas

Riproduzione vietata di questi materiali già pubblicati sul mensile MUSICA JAZZ (ottobre 2017)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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