Cile: il jazz jazz di Melissa Aldana
La giovane talentuosa tenorsassofonista cilena Melissa Aldana sta correndo come un treno nel mondo del jazz afroamericano. Dopo aver vinto la prestigiosa Thelonious Monk Competition ha lasciato Santiago del Cile per trasferirsi a New York, la capitale mondiale del jazz. Gian Franco Grilli l’ha intervistata in occasione del concerto modenese della rassegna Crossroads 2014. (+video)
Melissa, vuoi ricordare ai nostri lettori un po’ di dati anagrafici?
Sono nata a Santiago del Cile nel 1988 in una famiglia di musicisti, mio nonno aveva un’orchestra di musica ballabile, mio padre è sassofonista.
E con quali maestri hai studiato jazz ?
Ho appreso tutto da mio padre Marcos Aldana, ottimo tenorsassofonista e mi piace sottolineare che è arrivato in semifinale al Thelonious Monk International Jazz Saxophone Competition nell’anno1991 quando vinse Joshua Redman. A sei anni ho iniziato a studiare il sax contralto, trascrivendo Charlie Parker per molti anni. A dodici anni partecipai alla gara di Bravo Bravissimo, il programma televisivo condotto da Mike Buongiorno e suonai Isn’t She Lovely, un brano di Stevie Wonder. Quando tornai in Cile ascoltai il tenore di Sonny Rollins e mi innamorai tanto di quel sound che da quel momento in poi non ho più suonato il sax alto.
Tuo padre in semifinale e tu addirittura hai vinto l’ultima edizione del Thelonious Monk Competition, che è stato poi il tuo trampolino di lancio. Com’è andata?
Ritenevo fosse un’ottima occasione, e lo è, per i musicisti giovani così decisi di tentare con quel prestigioso concorso di Washington. Come da regolamento spedii il mio curriculum con foto, i brani che avevo registrato ed è successo che mi hanno chiamata. Ero molto tesa ma poi è andato tutto benissimo, ho ricevuto complimenti importanti di Wayne Shorter, Hancock e altri. Il premio in denaro ottenuto mi ha permesso di approfondire gli studi, e cosa importantissima è che da quel momento in poi sono arrivate richieste di collaborazione. Insomma, meglio di così non poteva andare.
Torniamo un attimo in Cile di cui si sa poco in fatto di jazz. Vuoi ricordarci i sassofonisti più importanti del tuo paese, un simbolo cileno del sax o un musicista che ha fatto la storia del jazz cileno?
Ti deluderò perché io sono cresciuta ascoltando i grandi maestri, Coltrane, Sonny Rollins, Charlie Parker, Michael Brecker e ovviamente nuovi nomi come Mark Turner, Rosenwinkel e altri, questi ultimi sono dei modelli importanti per me. Nel mio paese debbo dirti che non c’è un Coltrane cileno o un Sonny Rollins cileno. Non c’è un sax simbolo. Ci sono molti bravi musicisti, mio padre è un gran sassofonista, però qualcuno che abbia saputo marcare in modo significativo come hanno fatto Mark Turner o Joe Lovano credo che non ci sia né in Argentina , né in Cile.
E non esiste nemmeno una via al jazz cileno come accade in altri paesi sudamericani, mescolando jazz con musiche etniche, folklore. In America Latina vi sono diversi esempi di jazz mescolato a musiche locali, ad esempio in Venezuela si fonde jazz e joropo, in Colombia troviamo jazz combinato con porro, cumbia o currulao. Un progetto di jazz con musiche popolari cilene non rientra nei tuoi piani?
Io credo che ci siano artisti che fanno delle buone miscele però per quanto ho fatto io e appreso dai musicisti che ho frequentato in questi anni direi che sono quasi tutti orientati al jazz newyorkese. Io sono cresciuta in questo modo poiché mio padre ascoltava solamente il jazz nordamericano. Alla seconda parte della domanda rispondo che se si presentasse in modo naturale lo farei un progetto di quel tipo però al momento non vedo questa ipotesi poiché le mie radici musicali non hanno nulla a che vedere con le sonorità latine, mi piace il jazz jazz, puro e tradizionale. Il jazz trascende, oltrepassa gli stili musicali e il fatto che io sia cilena ovviamente in qualche momento potrebbe determinare qualche lieve influenza ma… Ribadisco il mio pensiero: il jazz è un genere globale e chiunque può apportarvi contributi e aggregare elementi provenienti da qualsiasi parte.
Però non si deve dimenticare che in Sudamerica sono nate grandi varianti di jazz, quello afrocubano, che oggi chiamiamo Latin jazz, il samba-jazz e la bossa nova, il tango jazz. A New York ti capita di lavorare con i rappresentanti di questi linguaggi?
Non sono stato influenzata da quelle espressioni e quindi non frequento musicisti di quell’ambiente. Io cerco di sviluppare il mio lavoro sul terreno delle mie influenze dirette che sono Sonny Rollins, Mark Turner e tutto ciò che accade di nuovo a New York.
Ma qua e là nei tuoi progetti fanno capolino elementi di quelle culture come il canto e il ritmo Yoruba intonati dal batterista cubano Francisco Mela.
Sì, è un contributo di Mela preso dalla sua tradizione e innestato sulla mia musica. Io non conosco molto della tradizione cubana che invece lui esprime con una certa padronanza , con grande swing e alla fine la miscela ottenuta è molto interessante…
… e questo è un bel frammento in linea con il latin jazz moderno.
Certo, ma io credo che sia sbagliato chiamarlo jazz latino perché il jazz è jazz, è una sola cosa e non mi piace che gli si diano nomi diversi.
Nel caso citato c’è un pattern nettamente afrocubano che fa la differenza con il jazz jazz che ami tu.
Lo so, ma oggigiorno ci sono artisti della mia generazione come Kurt Rosenwinkel il quale ha molti brani che vanno in quella direzione, con ritmi afroperuviani eccetera, e questo non significa che è latin o altro, ma che è jazz. Ritengo non sia corretto fare classificazioni, almeno io la penso così.
In casa tua oltre al jazz si ascoltava anche la nuova canzone cilena e autori come Violeta e Angel Parra oppure è un mondo che non ti tocca?
Conosco i Parra e altri cantautori importanti cileni ma non c’è nessuna influenza di loro nella mia musica. La musica cilena è molto bella e mi tengo sempre aggiornata sulle novità, sui gruppi folklorici
Vuoi ricordarci i dischi a tuo nome fin qui pubblicati?
Ne ho fatti tre: il primo, in quartetto, con il pianoforte si intitola “Free Fall” ed è stato inciso per l’etichetta Inner Circus Music di Greg Osby, un grande maestro e un uomo molto importante per la mia carriera. Con lui ho pubblicato anche il secondo album, sempre in quartetto, ma con la tromba al posto del piano e si chiama “Second Cycle”. In questo lavoro si sentono le influenze maturate nei miei primi anni a New York, città che ho scelto dove lavorare e viverci. Mentre il terzo è “Melissa Aldana & Crash Trio” realizzato assieme a Pablo Menares, contrabbasso, Francisco Mela, batteria ed è stato pubblicato con la Concord da poche settimane. Tranne un paio di brani, sono tutte composizioni mie e dei miei partner.
Non è un’impresa colossale, e anche faticosa mentalmente, suonare initerrottamente senza un pianoforte di riferimento o un altro strumento armonico e soprattutto in trio?
Il formato del trio è quello che preferisco e quel contesto mi affascina perché mi permette grande libertà di esprimermi e di dialogare meglio con i due compagni.
Fino a un paio di anni fa nessuno in Italia ti conosceva ma ora si sa già molto di te.
Sì, da Umbria Jazz Winter in poi ho suonate diverse volte e il vostro paese mi piace molto, il pubblico è molto competente.
Altri progetti in vista?
No, il Crash Trio è il mio progetto principale e con il quale stiamo suonando in giro per il mondo.
Se tu potessi formare una grande big band con grandi nomi di ieri e di oggi chi vorresti al tuo fianco?
Mi piacerebbe averne tantissimi ma stringendo te ne dico alcuni: Ray Brown, Roy Haynes, Bud Powell, Clifford Brown e Lee Morgan.
Quante ore dedichi allo studio?
Circa cinque o sei ore al giorno quando non sono in tournée.
A parte la musica, che è anche la tua professione, quali sono i tuoi hobby preferiti?
Mi piace molto cucinare e preparare un piatto tipico cileno, il pastel de choclo dove l’ingrediente base è il mais. Poi amo la lettura, e ultimamente stavo leggendo molte biografie di jazz e tra queste una di Jimmy Heath e una di Wayne Shorter.
Testo e foto: Gian Franco Grilli