LATIN JAZZ con  FLAMENCO: Daniel García Trio

Bellissimo omaggio ai grandi precursori del jazz flamenco e una nuova via al latin jazz quello che abbiamo ascoltato a Correggio Jazz 2024 con “La Via de la Plata” dal trio del pianista spagnolo Daniel García completato da due musicisti cubani (entrambi di Santa Clara): il contrabbassista Reinier Elizarde “El Negron” e il batterista Michael Olivera.

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Jazz: “presenze anomale” e anticorpi culturali

25. luglio 2014 – 17:25No Comment
Jazz: “presenze anomale” e anticorpi culturali

Vi proponiamo l’editoriale di Filippo Bianchi apparso sull’ultimo numero di PAN (giugno 2014). Si tratta di un’analisi molto attenta che risponde alle domande sempre più frequenti sulle frontiere del jazz e sulle “presenze anomale” nei cartelloni delle grandi rassegne jazzistiche.

“Life is not about finding our limitations, it’s about finding our infinity”. Herbie Hancock (Foto)

Frontiera: già l’etimologia ci ricorda le origini militari del termine, il “fronte d’armata”. La frontiera segna il territorio. Definisce l’appartenenza, a un paese, a una cultura, a una lingua. Rappresenta il “noi” rispetto agli “altri”. Semplificare il rituale di passaggio alla frontiera, sopprimere i segni convenzionali che la delimitano (confini, barriere, segnali, boe), superare l’ostacolo naturale (tunnel nella montagna, ponte sul fiume) significa distruggere la pelle della frontiera. Il derma, invisibile, persiste.

I generi musicali, le forme artistiche in generale, sono spesso definiti dalle frontiere, cioè per esclusione. Molti si chiedono quali siano le, sempre più ampie, frontiere del jazz oggi. Io mi sono sempre chiesto se il jazz non sia, piuttosto che una frontiera, un orizzonte: non qualcosa che chiude, ma qualcosa che apre…

“Generato da molteplice seme”, fin dalla nascita il jazz ha accolto in sé le culture e le etnie più disparate. Dopo un secolo di storia, possiamo dire che nessuna forma o funzione gli sia rimasta estranea: l’arte e l’intrattenimento, la canzoncina e l’atonalità, la danza e la pittura, il cinema e la letteratura, il misticismo e la protesta sociale.

Alcuni si lamentano del fatto che nei cartelloni dei grandi festival jazz compaiano, ormai da molti anni, “presenze anomale”, segnatamente le grandi star della musica pop. Se lo scandalo avviene sul piano culturale, però, la questione è mal posta, proprio per via della natura “accogliente” e non discriminatoria del jazz. I confini fra jazz e musica popolare sono stati spesso labili, sia nell’attualità che nella storia: fossero vivi (magari…), non direi che ci sarebbe da scandalizzarsi se nei programmi dei festival comparissero Frank Sinatra o Mel Tormé, che al loro tempo erano da considerarsi pop star, oltre che grandi jazzisti. Meglio sarebbe trasferire lo scandalo sul piano del mercato, tenendo bene a mente però che non si tratta di un mercato normale, dove il profitto è unica e legittima regola, ma di un mercato assistito da denaro pubblico, che quindi deve avere ricadute pubbliche, segnatamente la promozione culturale. E invece da troppo tempo i profitti privati crescono e le ricadute pubbliche scemano. La giustificazione, di solito, è che in un quadro di diminuiti investimenti pubblici, quale si registra da almeno un decennio, occorre compensare con maggiori entrate di botteghino. Sarà anche vero, ma è altrettanto vero che fra promozione culturale e incassi occorre mantenere un bilanciamento, che spesso si perde. E bisogna ammettere che le motivazioni di queste scelte sono sempre più legate al desiderio degli amministratori locali di avere quella visibilità garantita dal grande successo delle iniziative. Ora non è che bisogna promuovere una politica di platee vuote, che non piacciono a nessuno. Ma ci sono casi in cui, nell’ambito di festival jazz, addirittura si organizzano concertoni di pop star per migliaia di persone gratuiti!! E qui la pur fragile giustificazione economica ovviamente si perde e siamo in pieno panem et circenses: resta il desiderio del sindaco o dell’assessore di turno di incrementare la propria popolarità per essere rieletti; gli assessorati alla cultura con una spericolata mutazione genetica si trasformano in assessorati al consenso! Sarebbe bene che le loro campagne elettorali fossero fatte a spese dei propri sostenitori, non della totalità dei contribuenti, sennò trattasi di “arruolamento forzato”, una pratica che si sperava estinta dai tempi di Federico II…

Purtroppo ormai siamo talmente abituati a veder spendere impropriamente il denaro pubblico, da aver dimenticato perfino quali debbano essere le sue effettive destinazioni di interesse generale (che non includono la propaganda politica). E’ nei presupposti culturali che troviamo gli anticorpi: attenendosi a quelli, poi diventa tutto più facile e comprensibile.

Filippo Bianchi

(copyleft)

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