JAZZ, BJF 2024: 21 ottobre-17 novembre, tra Bologna, Ferrara e Forlì

Pat Metheny sarà la principale star del Bologna Jazz Festival 2024, che annovera in questa edizione nei grandi teatri cittadini altri protagonisti di massimo rilievo come Mulatu Astatke, Cécile McLorin Salvant e McCoy Legends. Ma nei jazz club ci sarà una programmazione che, a nostro avviso, restituirà un’immagine più significativa, variegata e completa dei del jazz multicolore oggi.

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Chucho Valdés & Afro-Cuban Messengers

1. agosto 2010 – 05:55One Comment
Chucho Valdés & Afro-Cuban Messengers

Al termine dell’intervista realizzata a Verona Jazz 2008 (e che potete leggere di seguito), il pianista e bandleader cubano annunciò il ritorno in scena con il gruppo Irakere. Si riferiva a Los Afro-Cuban Messengers, i messaggeri della musica afrocubana, una sintesi tra il formato della grande orchestra e il quartetto,  con cui ha registrato il nuovo album “Chucho’s Steps” (World Village – distr. Ducale).

Misa Negra rinnovò l’afrocuban jazz

(Intervista pubblicata su  Musica Jazz, n.12- dicembre 2008 ) Nel parlare della musica che lo vede come grande caposcuola, il leader di Irakere ricorda che ad aprirgli la strada fu, sbarcando all’Avana, Dizzy Gillespie. All’intervista ha partecipato anche la vocalist Mayra Caridad Valdés, sorella di Chucho, e figlia di Bebo Valdés, il grande pianista che abbandonò Cuba nel 1960. Ecco il racconto della chiacchierata raccolta a Verona Jazz 2008.

Vedere che suona il pianoforte con Julian – il suo ottavo «chuchito» – sulle ginocchia richiama alla memoria la sua precocità musicale. Può dipingerci un suo breve ritratto?

Sono nato nel 1941, cresciuto nel barrio avanero di Santa Amalia; ho trascorso vent’anni nel quartiere del Cerro e adesso vivo in quello di Playa. Nella mia casa c’era sempre qualcuno che suonava il pianoforte: o mio padre Bebo o suoi amici come Ernesto Lecuona. Avevo tre anni quando mio padre scoprì che stavo suonando il piano; a sei iniziarono le lezioni di musica, due anni dopo entrai al Conservatorio e….

…e poi l’esordio al Tropicana. Ray Sugar Robinson cosa le ricorda?

Il bambino nordamericano di dodici anni che suonava boogie-woogie nello Show del più famoso cabaret dell’Avana. Mio padre lavorava in quel locale e mi invitò a fare uno spettacolo- competizione con il ragazzino prodigio che aveva un nome simile a quello del grande pugile. Lui suonò boogie, io danzón, cha cha chá, classica e boogie. Alla fine il proprietario voleva farci un contratto per esibirci in duo. Io avevo nove anni e i miei genitori, soprattutto la mamma, non lo permisero. Gliene sono grato.

Quali sono i maestri che l’hanno influenzata maggiormente?

Il primo è stato mio padre. Ho avuto poi diversi professori di musica classica tra cui la pianista Zenaida Romeu – cui devo moltissimo: mi ha insegnato come associare le tecniche della musica classica al jazz – e Rosario Franco.

La sua musica è onnisciente:da Ignacio Cervantes a Monk. Questa voglia di dominare tutto lo scibile musicale denota inquietudine o tranquillità?

E’ allo stesso tempo l’espressione di queste due dimensioni: di inquietudine, per il desiderio di conoscere tutti gli stili, e di tranquillità, per utilizzarli organicamente.

Si è dimenticato soltanto del batanga, mai presente nei suoi progetti. Come mai?

Si tratta di un ritmo di jazz afrocubano che impiegava, oltre alle congas, i tamburi batá. Un sound fantastico, il più avanzato degli anni Cinquanta, per una band di 25 elementi e quindi con costi elevati. Il batanga non era musica commerciale e, per quanto mi è dato sapere, non decollò perché i produttori discografici non se la sentirono di rischiare nel momento in cui cha-cha chá e mambo erano di moda. Nei miei progetti non ho mai incorporato il batanga per rispetto verso mio padre, che ne è il creatore, e ho voluto fare qualcosa di diverso, sondare altri percorsi…

…come Misa Negra, considerato da molti il suo capolavoro. Un’opera maestra che ha ispirato intere generazioni,  tra cui Omar Sosa che indaga sugli africanismi sparsi in America.

E’ vero, anche se io puntai ad unire soprattutto «afrocubano» e «afroamericano». Misa negra, che presentai per la prima volta con il quintetto (tra cui c’erano Paquito D’Rivera e «Cachaito»)  nel 1970 al Jamboree Jazz Festival di Varsavia, cambiò il destino del jazz afrocubano.  L’esibizione fu travolta dal clamoroso applauso del pubblico che apprezzò il nostro modo di mescolare armonie jazz, classica, frammenti di rock e ritmo afrocubano. E piacque anche a Dave Brubeck – in scaletta dopo di noi –  che venne nel camerino e  mi disse: «Never stop!», continua così.

In quell’opera  – come pure  in Lucumí, Palo Congo Briyumba, Aguanile Bonko – ci sono influenze del mondo magico-religioso ereditato dagli schiavi. Qual è il suo rapporto con quella sfera culturale?

Prima di tutto sono santero,  «figlio» di Changó, Obatalá e altri orishas; conosco la lingua lucumí, di provenienza yoruba. Alla composizione Misa Negra arrivai dopo uno studio sui canti e i ritmi dei rituali yoruba e in generale sulle radici nere della musica cubana. La santería è una religione che ha un fenomenale patrimonio musicale: canti, danze e toques batá generici e specifici, ossia disegni ritmici legati a fasi del rituale.

Per studiare bene i tamburi batá (un set percussivo di sei membrane – NdA) con i suoi ritmi, non bastano mille anni. Ma dovevo conoscere almeno la sintassi del batà per trasferirla sul pianoforte e così ho studiato un po’ queste percussioni, oltre alle tumbadoras che suonavo già.

Quelle percussioni hanno marcato Irakere, fondato nel 1973. Cosa resta di quella storica band e dell’esperienza che è stata una «scuola speciale» per la musica cubana?

Si potrebbe fare un parallelo con Art Blakey e i suoi Jazz Messengers e il quintetto di Miles Davis Quintet, due «scuole» per jazzisti. A Cuba questo è avvenuto con Chucho Valdés e Irakere, un laboratorio dove sono transitati tutti: Paquito D’Rivera, Arturo Sandoval, Miguel «Angá» Diaz, Orlando Valle «Maraca», José L. Cortés «El Tosco», German Velazco…. Ora lavoro molto con il quartetto ma presto ritornerò con i nuovi Irakere, formazione ringiovanita, così supereremo i vecchi traguardi. Ho già preparato la musica per il progetto «Irakere Retorna».

Lei è stato un punto di riferimento per tanti jazzisti, ma soprattutto i pianisti la considerano un faro, una sorta di Olofi – la divinità della creazione – cioé come il dio supremo del pantheon pianistico caraibico. Per lei, cosa significa questo e quali sono le giovani stelle del piano cubano?

Olofi, nooo (ride fragorosamente). E’ probabile che io sia percepito come una guida, il mentore di un gruppo che pensa a nuove idee nel pianoforte. Essere ispiratore di alcuni grandi talenti mi riempie di orgoglio perché significa che il nostro lavoro è servito ad aiutare i giovani e la musica. Oggi, parlando di pianisti, mi piacciono Rolando Luna, Harold López Nussa, Aldo López Gavilán, Roberto Fonseca, giovani di grande livello.  Poi, tra i meno giovani, Gonzalito Rubalcaba: altro spessore, è una vera scuola, diversa da un’altra scuola importante, quella di Omar Sosa, uno dei miei preferiti, grande talento e molto creativo.

1977, La Habana. Inaspettatamente arriva la nave M.S. Daphné con a bordo jazzisti statunitensi, produttori, critici, tra cui Leonard Feather. Può ricordarci quello sbarco?

Fino a metà degli anni Settanta il jazz a Cuba era sottostimato, un po’ osteggiato, e veniva confuso con problemi di politica, trascurando che il jazz è musica nera e universale. Per anni fu proibita, ma senza una legge specifica, tutta la musica nordamericana. Io ho lottato con fatica per suonarla. Poi le cose migliorarono e quella visita fu miracolosa per il jazz cubano. Fu il primo viaggio di Dizzy Gillespie a Cuba (terra del suo amico Chano Pozo); arrivò con Stan Getz, David Amram, Earl «Fatha» Hines (che vidi suonare dal vivo per la prima e ultima volta nella mia vita), Ron McClure, bassista del Charles Lloyd Quartet in cui suonava anche Keith Jarrett. E poi una incredibile pianista, Joanne Brackeen, che accompagnava Getz, il batterista Billy Hart e altri. Irakere suonò con molti artisti di quella delegazione; Amram, che considero non solo un polistrumentista geniale ma anche un grande artista, presentò in modo fantastico la sua opera En Memoria de Chano Pozo e memorabile fu la jam session finale su Manteca. La nostra musica stupì tutti; ne parlò la stampa e nel 1978 ci invitarono al Festival di Newport, suonammo alla Carnegie Hall e di lì a poco ci esibimmo anche al festival di Montreux. Quindi Gillespie e i suoi amici, più il successo del nostro gruppo, aprirono la strada al nuovo jazz cubano e a tanti talenti.

Lei ha firmato più di cinquanta album. Ma quale metterebbe in prima linea fra le varie produzioni degli Irakere?

Sono tutti dischi eccezionali. Ma il migliore in assoluto è «Irakere», un album con cinque composizioni live registrate nel 1978 ai Festival di Newport e di Montreux. I brani raccolti erano, Juana 1600, Iya, Adagio, Misa negra e  Aguanile bonko, e arrivò il Grammy. Quella fu una formazione strepitosa, basti citare i sassofonisti D’Rivera, Averoff, i trombettisti Varona e Sandoval,  Del Puerto al basso, Morales alla chitarra e gli altri che non sto a citare.

Irakere, quindi, riportò in auge negli Usa sonorità figlie di quelle introdotte trent’anni prima da Chano Pozo. A sessant’anni dal suo omicidio, i cubani in generale conoscono l’opera di Chano, sanno cosa sono Manteca, Blen Blen Blen…?

I cubani da sempre conoscono Chano, anche da prima che andasse negli Stati Uniti, perchè lui era un rumbero molto famoso che suonava all’Avana, nei quartieri popolari o sui carri di carnevale. Fu il creatore principale del cubop, colui che introdusse per primo – e comunque riuscì a popolarizzare con Gillespie e Mario Bauzá – il ritmo afrocubano nel bebop. Da lì nasce quello che oggi chiamano latin jazz. Chano Pozo suonava ritmi yoruba, abakuá, cantava nella lingua folklorica africana. Fu una vera rivoluzione, e dietro Manteca c’è un mondo intero: musicalmente è jazz afrocubano e dentro c’è di tutto; si può riconoscere un po’ di son nel contrabbasso.

Pianista, compositore, arrangiatore, bandleader, direttore del Festival Jazz Plaza dell’Avana  e ora presidente del Varadero Jam Session.
Sì, ho anche questo nuovo incarico per il Jam Session Festival di Varadero, che si tiene in settembre  nella più nota località balneare di Cuba e che per molti anni fu anche sede del festival della canzone, un grande evento internazionale, tra l’altro gratuito.

A Cuba non c’è una rivista di jazz, il sistema non facilita molto i contatti con l’estero. Allora come ci si aggiorna? Quando non è in tournée lei suona nei jazzclub della capitale?

Nell’Isla abbiamo sempre ricevuto Down Beat e Jazz Hot e ci informiamo attraverso la radio, internet e il passaparola tra musicisti. Io lavoro soltanto ai due festival del jazz e suono raramente nei jazz club avaneri perchè non hanno il pianoforte acustico: quello elettrico non mi piace.

Dire Valdés in ambito musicale significa entrare in un labirinto. Ma i Valdés che di nome fanno Gilberto, Vicentico, Miguelito, Merceditas, Patato e Oscar sono suoi parenti? E non ha mai pensato a un concerto con una band solo di artisti di «Casa Chucho Valdés» ?

Quei grandi nomi citati non fanno parte della mia famiglia musicale, che è composta da Bebo, Chucho, Mayra Caridad e le nuove generazioni Chuchito, Dayane e altri. Al concerto della famiglia Valdés ci stiamo pensando e chissà …

Su questa speranza termina la conversazione con il pianista cubano, che cede il microfono alla cantante del suo quintetto, la sorella Mayra Caridad Valdés che partecipa all’intervista.. Secondo lei, Mayra, il concerto di famiglia potrebbe avvenire anche all’Avana con il ritorno di Bebo?

Nostro padre adesso vive tra Svezia e Spagna e credo proprio che non tornerà a Cuba: è una storia come quella di altri artisti cubani, vedi Celia Cruz o di tanta gente comune. Quasi tutti i cubani condividono l’esperienza di avere parenti fuori dal Paese. Il distacco da mio padre avvenne nel 1960, io avevo quattro anni,  mentre Chucho ne aveva circa venti,  e per lui fu diverso. Con il passare del tempo  riassorbii il trauma, che per le femmine è più forte per via dell’attaccamento alla figura paterna. Così accettai e rispettai la sua scelta, perché ognuno deve fare ciò in cui crede.

Può dirci come e quando ha sposato il canto jazz?

Sono cresciuta ascoltando jazz con mio padre e con Chucho, i dischi che loro compravano ovvero Charlie Parker, DukeEllington… e, tra le cantanti, Sarah Vaugahn, Ella Fitzgerald, Billie Holiday; questo succedeva mentre mia madre Pilar Rodríguez, cantante,  mi avviava al canto che ho completato con studi accademici. Nel 1975 iniziai a insegnare canto e direzione di coro, ma mi piaceva più cantare: nel 1980 partecipai a Todo El Mundo Canta, un concorso per scoprire nuovi talenti, e vinsi quella competizione canora, che era soprattutto di musica popolare, cioè bolero, son, guaracha… insomma la nostra tradizione da cui traggo elementi per inserirli nel canto jazz e viceversa. Nel 1981 ci fu il mio esordio jazzistico internazionale con gli Irakere al festival Tierrazo Jazz di Puerto Rico. Da quel momento in poi  mi sono esibita con il gruppo in altre occasioni, ma entrai stabilmente negli Irakere soltanto nel 1996 e sono stata l’unica voce femminile dell’orchestra.

di Gian Franco Grilli

cortesia www.salsa.it

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