LATIN JAZZ con  FLAMENCO: Daniel García Trio

Bellissimo omaggio ai grandi precursori del jazz flamenco e una nuova via al latin jazz quello che abbiamo ascoltato a Correggio Jazz 2024 con “La Via de la Plata” dal trio del pianista spagnolo Daniel García completato da due musicisti cubani (entrambi di Santa Clara): il contrabbassista Reinier Elizarde “El Negron” e il batterista Michael Olivera.

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URUGUAY: DANIEL VIGLIETTI, Canto Libre di “proposta”

11. febbraio 2019 – 00:41No Comment
URUGUAY: DANIEL VIGLIETTI, Canto Libre di “proposta”

La vicenda umana e artistica del cantore uruguayano Daniel Viglietti (1939-2017) ci è tornata in mente vedendo il nuovo film di Álvaro Brechner sulle esperienze di sopravvivenza di tre tupamaros (tra cui Pepe Mujica): Una notte di 12 anni. Infatti anche il cantautore Viglietti,  artista scomodo per la dittatura fu incarcerato nel 1972 a Montevideo per una popolarissima milonga contro i latifondisti e  venne poi liberato grazie a una campagna internazionale di denuncia promossa da Jean Paul Sartre. 

Ricordiamo,  su questo portale e su Musicajazz.it, quella  lunga e tragica notte sudamericana di feroci torture e repressioni  con l’intervista al principale protagonista della canzone militante dell’Uruguay e uno dei capiscuola del cantautorato latinoamericano che visse in esilio fino al 1984. Viglietti è scomparso nel 2017.

Il trovatore, compositore e giornalista uruguayano ha cantato per oltre mezzo secolo l’uomo nuovo. Caposcuola per molti cantautori latinoamericani, chitarrista di grande talento, Daniel Viglietti ha musicato opere di numerosi celebri poeti come Rafael Alberti, Federico García Lorca, Cesar Vallejo, Mario Benedetti o Nicolás Guillén; ha collaborato con Leo Brower ed è cresciuto ascoltando jazz in una famiglia di importanti musicisti. Le sue canzoni sono state interpretate da grandi voci come Mercedes Sosa, Juan Manuel Serrat, Chavela Vargas. Víctor Jara, Amparo Ochoa, Isabel Parra e nei suoi recital cantava anche brani di Violeta Parra, Atahualpa Yupanqui, Chico Buarque, Edu Lobo e di cantori della nueva trova cubana come Silvio Rodriguez e Pablo Milanés.  Artista scomodo, incarcerato nel 1972 a Montevideo per una popolarissima milonga contro i latifondisti venne poi liberato grazie a una campagna internazionale di denuncia promossa da Jean Paul Sartre. Nel 1973 cominciò il suo lungo esilio in Europa che nell’arco di circa 12 anni attraversò in lungo e in largo con chitarra e voce per raccontare le tragedie del Sudamerica e il processo di liberazione dei popoli dell’America latina. Nel 1974 cantò in diverse città italiane tra cui Brescia, Milano, Reggio Emilia, Modena e Bologna con il sostegno concreto del maestro Luigi Nono per denunciare la dittatura uruguaiana che stava torturando molti prigionieri politici tra i quali militanti del movimento di guerriglia dei Tupamaros come José “Pepe” Mujica, Eleuterio Fernández Huidobro e Mauricio Rosencof le cui esperienze di sopravvivenza sono state raccontate in Una notte di 12 anni, il film di Álvaro Brechner da giorni nelle sale italiane. Come iniziativa collaterale per ricordare quella “lunga e tragica notte sudamericana” pubblichiamo l’intervista al principale protagonista della canzone militante dell’Uruguay e uno dei capiscuola del cantautorato latinoamericano Daniel Viglietti. L’artista di origini italiane (il bisnonno veniva da un paesino non specificato sull’asse Genova e Torino) lo incontrammo la prima volta in occasione di una manifestazione in memoria dell’emigrazione, ci risentimmo poi qualche tempo dopo, ma purtroppo non c’è stata una terza chiacchierata: se n’è andato nell’ottobre 2017 e quest’anno avrebbe compiuto 80 anni. Ecco il racconto che sintetizza i due incontri.

Che ci fa un cantautore uruguayano al Festival del Cinema Latino Americano di Trieste?

Sono qui per ritirare il Premio “Oriundi-Italia In America Latina” che ogni anno viene assegnato ad artisti di origini italiane che valorizzano la memoria dell’emigrazione e della presenza italiana in America Latina. Un po’ del mio sangue viene da Genova, Torino, Napoli e Salerno e quindi questo riconoscimento mi ha fatto sentire tra fratelli e mi riempie di orgoglio nell’essere stato nominato anche presidente della Giuria di questa rassegna cinematografica che nella sua specificità è la più importante in Europa.

 

Concretamente, nel tuo caso come si è svolto il lavoro sulla memoria dell’emigrazione?

Divulgando la cultura e le tradizioni italiane con varie iniziative tra cui far circolare materiale musicale italiano. Inoltre una delle motivazioni del premio è il mio rispetto profondo per il neorealismo italiano, per Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Cesare Zavattini. Essendo io un cantante militante tutto questo potrebbe sembrare fuori luogo, ma non lo è perché un musicista si espone sempre a molte influenze e poi il cinema fa parte della mia cultura, ho scritto musiche per film. Insomma sono un grande appassionato di questo linguaggio e del piccolo schermo, inoltre collaboro con emittenti televisive di vari paesi del continente latinoamericano.

 

Completiamo il tuo profilo.

Sono nato a Montevideo il 24 luglio del 1939 in una famiglia di grandi tradizioni musicali: mia madre Lyda Indart era una pianista classica, concertista importante in Uruguay e anche in Francia dove lavorò molto nel Teatro dell’Opera; mio padre Cédar era chitarrista, amava la musica classica, ma si dedicò con grandi risultati allo studio delle musiche folkloriche latinoamericane. Mio zio materno, José Indart, era un pianista di grande versatilità (caratteristica questa molto importante nella musica popolare) ottimo improvvisatore, interpretava canzoni, tango, folklore e jazz nei nights clubs, alla radio e negli hotel. Scoprii grazie a lui il giovane Dizzy Gillespie, i boppers, Duke Ellington, le novità di quegli anni (inizio Cinquanta) che per noi erano Stan Kenton e il Nat King Cole strumentista, prima che esplodesse nella veste di cantante. Il mio primissimo strumento fu il pianoforte poi passai a studiare la chitarra con i maestri Atilio Rapat e Abel Carlevaro al Conservatorio Nazionale di Musica dell’Università, eppoi studiai armonia e canto. Avevo un futuro davanti come chitarrista classico, direttore d’orchestra e compositore, mi piaceva Igor Stravinsky, gli impressionisti, per divertirmi strimpellavo standard di jazz, ma adoravo la musica folklorica pura.

Cioè?

Intendo dire opere anonime rese popolari alla massa come seppe fare il cantante argentino Antonio Tormo, ma uno dei miei idoli principali è stato un altro argentino: Atahualpa Yupanqui, straordinario musicista e poeta. Ogni volta che veniva a Montevideo si incontrava con mio padre, erano amici e fu così che lo conobbi quando ero bambino. Allora mi piaceva e basta, poi crescendo cercai di conoscere meglio il suo lavoro, diventammo amici e alcune sue canzoni sono nel mio repertorio da sempre ed è importante dire che siamo un po’ tutti debitori di Yupanqui, il primo cantore delle ingiustizie sociali, dei diritti in America Latina. Molti mi ritengono un cantante di protesta, ma io preferisco dire artista di proposta.

 

Yupanqui in qualche modo ti indirizzò, ma risulta che fu Cuba a spronarti per scendere in campo come bardo ribelle?

Quella decisione è legata alla mia prima visita a Cuba nel 1967. Quel viaggio nell’isola dei barbudos si trasformò in un amore folgorante, importantissimo. Presi coscienza delle cose e lì vennero convalidati alcuni sentimenti che stavo maturando rispetto alla lotta per far trionfare l’uguaglianza, i diritti delle minoranze degli Indios, la giustizia sociale, la solidarietà e i diritti umani a livello planetario. Ma si trattò di un grande impatto anche a livello culturale e in quei giorni, tra tanti nomi importanti, conobbi uno che avevo ascoltato per caso a Montevideo: Ignacio Jacinto Villa, alias Bola De Nieve.

 

Che tra l’altro, se non ricordo male, il New York Times lo paragonò a Nat King Cole, è giusto?

Sì, Bola è stato uno dei migliori artisti nati a Cuba, cantante, pianista e compositore tra i più geniali dell’America Latina, con uno stile unico e depositario di una cultura immensa del folklore, dimensione questa che possedeva anche Athualpa Yupanqui. Mi sembra ancora di vederlo mentre suonava Drume, Negrita! di E. Grenet, una ninna nanna diventata uno standard del latin jazz da non confondere con Duerme Negrito, che è un canto di culla anonimo che Yupanqui scoprì ai confini tra Colombia e Venezuela rendendolo famoso a livello internazionale tanto che Mercedes Sosa lo cantava spesso nei suoi concerti e anch’io offrii una mia versione in un vecchio disco registrato all’Avana.

 

Quel primo soggiorno avanero coincise più o meno con la scomparsa di Che Guevara?

Proprio così: stavo registrando nella capitale cubana il mio terzo disco, «Canciones para El Hombre Nuevo», quando il «Che» venne assassinato in Bolivia. Partecipai alla veglia solenne in memoria del comandante Che Guevara nella stracolma Piazza della Rivoluzione dell’Avana e lì ascoltai il silenzio più incredibile della mia vita, un silenzio che era come un grido. Mi viene la pelle d’oca solo a pensare che ho vissuto in quel modo una delle date più importanti della storia del secolo scorso, e non solo dell’America Latina. Ho passato molte esperienze in oltre oltre settanta anni di vita e carriera ma la carica emotiva e l’atmosfera di quella manifestazione non si possono rappresentare con le parole, eppoi Ernesto Guevara per me è stato un maestro di etica con la sua condotta di vita esemplare.

 

Quell’evento accentuò la tua scelta di diventare interprete dell’indignazione e della speranza di molti giovani idealisti tra la fine degli anni Sessanta e primi Settanta e non solo in America Latina?

Certamente, e il sostantivo che hai impiegato è molto corretto poiché «interprete» traduce a livello culturale una quantità enorme di sentimenti positivi, di giustizia, di ribellione, di libertà e di amore per l’essere umano. Quello è stato il periodo più buio del nostro Continente; molti sono stati torturati, io nel 1972 fui incarcerato a seguito di repressioni dei movimenti di sinistra e poi venni liberato grazie a una campagna di solidarietà promossa da personalità come Jean-Paul Sartre, François Mitterrand, Julio Cortázar, Oscar Niemeyer. Dal 1973 esule in Francia per oltre dieci anni, lì incrociai anche esuli cileni e in quell’interminabile stagione facevamo concerti in Europa per denunciare la dittatura uruguaiana e appoggiare la situazione dei prigionieri politici. Nel 1974 cantai a Brescia, Milano, Reggio Emilia, Modena e Bologna con il sostegno concreto del maestro Luigi Nono, che illustrava al pubblico le nostre tragiche vicende e presentava la qualità del mio lavoro; lo incontrai nuovamente a Montevideo e a Cuba e sono orgoglioso di averlo conosciuto perché è stato un artista con idee rivoluzionarie, molto avanzate per quell’epoca, una musica ribelle, vera, perché una musica che canta revolución, revolución non è di per sé rivoluzionaria, ma lo deve essere nella sua fattura complessiva, nella sua estetica. Comunque rientrai a Montevideo nel 1984 e poco dopo pubblicai «A dos voces» canzoni scritte e interpretate in esilio assieme al mio connazionale poeta Mario Benedetti.

Da tempo in Uruguay (e in altri paesi del Continente) sono al governo forze progressiste: secondo te c’è ancora bisogno di canzone militante, di trovatori impegnati? E tra la canzone di ieri e di oggi c’è continuità o discontinuità?

Realmente uno canta sempre un orizzonte. Utopicamente l’orizzonte si muove e l’uomo nuovo si sposta. Mi spiego: quando pensi di avere ottenuto una cosa, questa si muove, c’è crisi, e allora la ricerca continua. Un musicista lavora con un orizzonte sempre in movimento e così io ho sempre lavoro da proporre e in continuità. Ci sono canzoni anche recenti che in qualche modo riflettono altre tappe, però con evidente fedeltà al cuore di uno che sta a sinistra.

 

Ma la sinistra si muove ovunque e non sempre bene. Restando nel tuo Continente: cosa ne pensi della Cuba di oggi e di un tuo amico-collega come Pablo Milanés che critica il modello cubano diversamente da Silvio Rodriguez che è più governativo?

L’ultimo viaggio che ho fatto a Cuba risale a un paio di mesi fa e ho visto che una buona quantità di gente continua ad appoggiare la rivoluzione senza perdere la memoria di quello che gli ha dato quel processo politico-sociale e soprattutto in termini comparativi con la storia del resto dell’America Latina. Poi c’è chi cerca di fare critiche, io dico costruttive, come Pablo Milanés. Ma anche lo stesso Silvio Rodriguez, con il quale ho suonato molte volte ed eravamo hermanos, sembra essere molto attivo, sta cantando moltissimo, accompagnato dalla moglie flautista, nei diversi quartieri della capitale e in giro nell’isola. E tra l’altro, faccio una parentesi, i musicisti che lavorano con questi artisti sono anche ottimi jazzisti. Questo aiuta una quantità di giovani che lavorano sulla trova, criticano il sistema ma dentro il paese e non se ne vanno da Cuba. Affrontare la realtà in cambiamento in modo più deciso come Pablo Milanés per me non significa essere contro la rivoluzione. Io direi che tutti stanno propiziando nuovi cambiamenti, che lo stesso governo sta attuando. Ma le cose non sono semplici e bisogna ricordare il primo Milanés quando cantava “no vivo en una sociedad perfecta”.

 

 

Per concludere, ricordaci qualche tua canzone o produzione pubblicata qui in Italia, poi il tuo primo album e quello più recente.

Ricordo che delle mie canzoni vennero pubblicate in Italia dall’etichetta Dischi dello Zodiaco, in un disco dedicato al Che e in altre selezioni curate da Meri Franco Lao, una bravissima studiosa e una amica come lo è per me anche la straordinaria Giovanna Marini con cui sono stato in contatto per programmi radiotelevisivi in Sudamerica poiché fin da giovane ho fatto giornalismo e conduttore in programmi musicali. «Canciones Folkloricas y Seis Impresiones Para Canto y Guitarra» (1963) fu il primo LP, ne seguirono altri cinque fino al 1973, poi «Devenir» e l’ultimo è Trabajo de hormiga.

 

Gian Franco Grilli

 

 

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