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CARLOS CIPPELLETTI, brillante promessa del neo afrocuban jazz

4. aprile 2022 – 22:08No Comment
CARLOS CIPPELLETTI, brillante promessa del neo afrocuban jazz

Carlos Cippelletti, musicista “pensante”, tranquillo, determinato, dall’Europa rielabora in maniera feconda piano jazz e arrangiamenti ispirati al rivoluzionario e straordinario laboratorio delle musiche afrocubane jazzificate che furono gli Irakere di Chucho Valdés.  Classe 1996, il talentuoso pianista spagnolo con il brillantissimo esordio discografico raccolto in  «HYBRID/C» dimostra anche doti di raffinatissimo compositore e di ampie vedute. Ecco cosa ha raccontato di questo progetto e della sua carriera a Gian Franco Grilli .

Nella sua musica rivivono voci e sonorità di grandi maestri del jazz e della musica latina e in particolare una buona dose di cubanità ereditata dal sangue santiaguero del padre. Carlos non pretende d’inventare nulla ma con il bellissimo disco «HYBRID/C» rielabora sapientemente alcune sonorità scaturire mezzo secolo fa dallo straordinario laboratorio che furono gli Irakere di Chucho Valdés, il più importante mentore del musicista alicantino. Le influenze dell’afrocuban jazz stile Irakere spiccano in primo piano (e con orgoglio dell’artista spagnolo) fin dalle prime battute di questo impianto musicale svolto in modo impeccabile tanto da ricevere un autorevole endorsement dal Re Mida del piano cubano Chucho Valdés, che pronostica all’autore una magnifica carriera. Ecco la lunga chiacchierata avanti e indietro nel tempo per scoprire il cammino artistico percorso fin qui da Carlos Pascual Cippelletti, “musicista pensante”, attento a tutto quel che si muove intorno alla sua vita.

Carlos, tralasciamo un attimo il tuo profilo e partiamo invece con un flash sul disco-esordio per ritornarci su nella corso della chiacchierata. Tra gli ispiratori delle tue composizioni raccolte in “Hybrid/C”, davvero bellissimo, spicca su tutti il grande Chucho Valdés prima maniera, quello di Irakere. Infatti ti immetti su quella sua pista tracciata e fondamentale per la storia moderna del jazz cubano, che affonda le radici nell’afrocuban jazz del primo padre di questa scuola, ossia Mario Bauzà, compositore del primo pezzo di jazz afrocubano, ossia Tanga. Com’è nata questa scelta e predilezione per Chucho?

Sì, hai colto perfettamente il senso dei mio lavoro e concordo con quanto esprimi. Per me la figura del maestro Chucho è fondamentale, l’ho studiato, perché rappresenta l’innovazione musicale cubana degli ultimi cinquant’anni e in modo straordinario la cultura di Cuba, dove svetta una fortissima cultura sincretica. Chucho Valdés è riuscito a perpetuare la fusione di stili e generi musicali di tutto quel vasto patrimonio e, secondo me, rappresenta una nuova sintesi di una pagina importante della storia della musica, una “fusion” impareggiabile: con lui ascolti musica classica, ascolti l’Europa, gli Stati Uniti, l’Africa, Mozart, il bebop, il soul, il blues, ritmi ballabili, la clave, e quindi Cuba. Per me è stato una fonte di ispirazione per la mia ibridazione di linguaggi e stili.

Nelle note informative dell’album c’è un autorevole endorsement del gigante del piano cubano. Hai avuto opportunità di conoscere Chucho nel periodo che periodicamente risiedeva in Spagna (tra l’altro anche suo padre Bebo) o è frutto di pubbliche relazioni del management?

La prima volta che parlai con Chucho risale a sei anni fa partecipando a una sua master class in Barcellona e suonando nella band di quel corso ma non approfondii nulla. Le belle parole del Maestro sono arrivate grazie all’intraprendenza di miei musicisti come Manuel Machado e altri che hanno registrato il disco. Andò così: Manuel fece ascoltare l’album a Chucho con il quale aveva suonato al tempo degli Irakere e i miei colleghi mi fecero giungere questa sorpresa in occasione del mio compleanno. Emozionato e grato ho poi conversato lungamente con Chucho e da lì è nata una bella relazione che trascende la musica.

Hai conosciuto anche suo padre Bebo Valdés?

Claro que sì! E ti dirò di un concerto che rappresenta un prima e un dopo che riguarda la mia vita musicale: avevo otto anni quando vidi un concerto indimenticabile ad Alcoy, provincia di Alicante, con il duo di Chucho e Bebo per promuovere il magnifico disco Para Siempre. A quel tempo non capivo esattamente il valore e la fascinazione per questi due geniali musicisti cominciò quando ero un adolescente e suonavo spesso sui loro dischi.

 

Allora torniamo alla tua infanzia e ai tuoi inizi musicali non prima però di svelarci qualcosa sul tuo cognome italiano pur sapendo delle tue origini cubano-francesi.

Cippelletti è di origine italiana ma è il mio secondo cognome che mi arriva dalla linea materna. La vicenda è un po’ intricata, comunque spero di riuscire a chiarire: intanto mia madre è francese, mio padre era cubano. Mia nonna materna era spagnola e mio nonno materno era un italiano nato in Tunisia, poiché esistevano dei rapporti stretti tra Sicilia e Tunisia. Infatti suo padre, cioè mio bisnonno, proveniva da Verona e la bisnonna dalla Sicilia. Inoltre nonno Cippelletti aveva parenti in Francia e così con mia nonna decisero di vivere lì a Parigi dove poi nacque e visse mia madre. Quindi una vena francese dalla parte di mia madre che aveva anche una vena italiana.

Però non capisco perché artisticamente porti il cognome Cippelletti, che -se ho capito bene- è quello della madre e non quello di tuo padre?

Sì, mi rendo conto della contraddizione, confusione, perché il mio primo cognome è Pascual, e viene da Cuba. Ho scelto però di promuovermi con il cognome materno ritenendolo di maggior impatto e, a mio avviso, molto musicale. Insomma è frutto di miei calcoli e desiderata.

A questo punto passiamo alla tua carta d’identità con dettagli sulle tue origini.

Carlos Pascual Cippelletti, nato il 1° febbraio 1996 a Alicante, Spagna, sulla costa mediterranea. Mio padre, che purtroppo è morto all’età di 74 anni in Spagna nell’agosto 2021 per il Covid, era cubano e posso dire che ha vissuto due vite: i primi 47 anni li ha trascorsi a Cuba dove era nato a Santiago poi si trasferì all’Avana. E proprio nella capitale conobbe mia madre e dopo una lunga storia d’amore si sposarono stabilendosi a vivere qui in Spagna.

Sei figlio d’arte, che tipo di musica si ascoltava in casa?

Non proprio, mio padre non era musicista ma frequentava il mondo artistico poiché era un direttore del Fondo dei Beni Culturali dell’Avana e di Santiago de Cuba, entità dove transitano soprattutto opere di pittura e scultura e aveva a che fare con artisti contemporanei di spessore come Manuel Mendive. Insomma si muoveva come gestore imprenditoriale e culturale. Da lì viene la mia curiosità per la tradizione folklorica afrocubana e le radici cubane e anche se non sono nato nell’Isla nel mio dna sono ben evidenti questi aspetti e inquietudini culturali per capire la religione Yoruba, le origini della santería. e fenomeni sincretici oggi più che mai importanti per vivere dentro questa globalizzazione.

Quindi tuo padre è scomparso prima dell’uscita del tuo album? E che ne pensava di quei sincretismi?

Infatti è morto un mese prima dell’uscita del disco ma gli avevo già fatto ascoltare le tracce; questo disco è un omaggio alle mie radici e a questo punto rappresenta anche il miglior omaggio che potevo dedicare a mio padre. Sincretismi? Quando viveva a Cuba in gioventù mio babbo aderiva assiduamente alla religione del Palo Monte di origine congo, bantù.

 

E invece tua madre?

Anche mia madre non era musicista professionista, ma suonava il pianoforte avendolo studiato a Parigi, mentre il bisnonno García Arévalo era un compositore e professore di pianoforte del Conservatorio di Teruel, nella regione Aragona.

Hai vissuto anche a Cuba?

Sono stato una dozzina di volte a Cuba ma per trascorrere delle vacanze là perché mio padre voleva che restassi legato alle origini. Con la famiglia andavamo poi ogni due anni e con la pandemia oramai sono cinque anni che non vado ma anche perché non ho zii e parenti ormai in quanto mio babbo era figlio unico. Inoltre mia nonna scomparve quando io avevo circa due anni e so che decise di morire nella sua terra.

Tuo padre praticava quei sincretismi religiosi cubani, mai poiché vi sono diversi elementi di quel mondo nel tuo progetto voglio chiederti se sei un discepolo di quella spiritualità o solamente sei attratto da questioni estetico-sonore?

Diversamente da mio padre, che quando era giovane che seguiva intensamente come discepolo quel mondo, io non sono praticante di nessuna di quelle religioni popolari ma le rispetto profondamente, seguo il fenomeno dal punto di vista estetico culturale come la santería. Sto cercando di scoprire a poco a poco interessi spirituali su quel versante, mentre sono cresciuto con valori del cattolicesimo spagnolo anche se, come dicevo, cerco di capire la spiritualità della religione yoruba ma senza praticarla. Tuttavia leggo molte opere per approfondire i contenuti reali delle varie espressioni.

 

Nelle tue escursioni cubane coglievi occasione per indagare e studiare sul campo le tradizioni musicali e intrecciare rapporti con artisti locali o vivevi l’esperienza con distacco?

Sì, studiavo e studio poiché mio padre aveva molti amici musicisti che in parte ho ereditato, ho sviluppato diversi contatti e per citarne uno posso dirti David Blanco, cantante, strumentista, compositore, stella rock, pop, rap e fonde vari stili mantenendo però un base ritmica cubana. Ho suonato come ospite nella sua band sia al Teatro Heredia di Santiago de Cuba sia all’Avana. Tutti costoro comunque mi hanno ispirato e insegnato un sacco di cose in maniera pura, naturale, di quel patrimonio. Dimenticavo, ho fatto anche un concerto di piano solo nello storico club Gato Tuerto ma ormai cinque anni fa.

Quando eri poco più che un adolescente. Ma come eri percepito dal pubblico cubano visti i tuoi tratti somatici nettamente europei e per nulla santiagueri? Hai la cittadinanza cubana?

Il pubblico era meravigliato e in effetti io fisicamente non sembro un cubano, ho ereditato poco in tal senso poiché mio padre era bianco con lievi tratti dei nativi indio. Io ho la doppia nazionalità, cioé francese che spagnola ma non quella cubana perché le leggi cambiano in continuazione e non mi sono mai interessato più di tanto.

Quale tipo di musica si ascoltava in casa tua quando eri piccolo?

A mio padre piacevano molte musiche differenti ma soprattutto quella cantabile e la strumentale. Tra quella cantabile ballabile adorava in particolare quella sonera, timbera, nueva e vieja trova, per esempio nomi come Isaac Delgado e Pablo Milanés. Mentre di quella della strumentale gli piaceva moltissimo Rubén Gonzales, ma anche la rumba de Los Muñequitos de Matanzas; il danzon e i ritmi dell’Epoca de Oro di Cuba, musica per rallegrare lo spirito, non tanto cerebrale.

In Italia direi che sei sconosciuto nell’ambiente jazzistico tuttavia ho letto che hai già fatto qualche esperienza da queste parti: come, dove e con quale stile?

Sì, ho fatto un concerto di piano solo al festival di Muse Salentine ad Alessano, provincia di Lecce, dove vengono invitati artisti internazionali emergenti. Fui molto impressionato perché mi trovavo nel sud italiano dove tra l’altro provenivano una parte dei miei antenati. Presentai un repertorio di piano solo interpretando anche standard di musica popolare declinati in jazz, brani di Ernesto Lecuona, di son, un omaggio a maestri che mi hanno influenzato come Chucho Valdés o Pepe Rivero, che è stato il mio primo maestro.

A proposito di maestri, di Chucho oramai sappiamo abbastanza, mentre di Rivero direi che siamo carenti di notizie. Parlaci soprattutto di quest’ultimo spiegandoci cosa rappresenta?

Volevo dire che Chucho è un punto di riferimento obbligato se vuoi suonare afrolatin jazz, io non ho mai studiato direttamente con lui ma le sue opere geniali le ho approfondite. Invece mi sono preparato e formato con Pepe Rivero che considero uno spartiacque nella mia vita personale e artistica in quanto è riuscito a farmi crescere e sviluppare come persona attraverso la musica e il pianoforte, e questo fa la differenza nel vero maestro. Pepe, oltre che gran didatta, è un ottimo pianista che a Cuba suonava nella orchestra di Isaac Delgado e assieme a Ivan Melon, altro pianista-tastierista eccellente, ha collaborato anche con Celia Cruz. Per completare la risposta precedente aggiungo che nel concerto di Muse Salentine suonai anche un pezzo di Ernan López Nussa, Rencuentro, adatto a quella situazione di reincontrare il pubblico dopo tanto silenzio per il Covid-19. Quindi inglobai nell’estetica ritmi, folklore afrocubano e classica sulla tastiera del piano.

Da cosa scaturì la tua presenza in quel festival giacché non mi sembravi affatto noto su queste latitudini, o almeno a molti di noi latinofili?

Bella domanda, e andò così: Charles Adriaenssen, belga, il direttore artistico del festival,è anche il direttore dell’etichetta discografica che ha lanciato il mio disco e così mi invitò a partecipare in quanto è una persona molto attenta alle musiche latinoamericane e in quel festival si unisce il classico con la musica popolare. E questo è in parte lo spirito-ponte che anima la sua casa discografica per intrecciare varie culture come classica, popolare e jazz.

 

Già, jazz: cosa significa per te fare jazz?

Per me jazz significa libertà e praticandolo ti insegna a condividere diverse cose con gli altri: a sapere quando parlare (suonare) o quando devi stare zitto (ascoltare), a sbarazzarti un po’ di quell’ego che invece caratterizza molti artisti. E questo tipo di atteggiamento dovrebbe sempre valere nella vita quotidiana, soprattutto.

 

Musicalmente lo vedo soprattutto in molti (con alcune eccezioni) artisti e creativi del Sudamerica in genere.

Esattamente, quello spirito di unione e pace che riscontro anch’io nella musica latinoamericana e nel rapporto coinvolgente con il pubblico, e tutto ciò mi affascina.

Continuiamo con il jazz. Se non erro sei stato anche al nostro importantissimo festival Umbria Jazz, è così?

Sì, a Perugia suonai tempo fa, allora avevo 19 anni, con il Clinic della Berklee Colle of Music che si tiene a Perugia. Tutto questo è legato al fatto che ho sempre apprezzato frequentare le Università di musica, la pedagogia, e a 14 anni ho iniziato a frequentare clinics e workshop in Francia. Ma Barcellona studiavo già piano e nell’aula jazz del Lyceo notai che c’era una connessione con Berklee. Siccome sono curiosissimo di apprendere cose nuove decisi di conoscere di più quel linguaggio afroamericano e partecipai per un paio di settimane mi piombai a Perugia, un’esperienza magnifica dove incontrai molta gente e miei coetanei di tutti continenti. Seguimmo master class di altissimo livello, per esempio con Robert Glasper e concerti di grandissimi maestri. Un’opportunità unica e nella quale ho suonato con un paio di ragazzini italiani supertalentuosi ma di cui non ricordo il nome.

Andiamo allora un po’ indietro. Parlaci dei tuoi primi passi musicali, se con il piano o un altro strumento.

Fin da piccolissimo ho iniziato subito con il pianoforte seguendo gli insegnamenti di mia madre, che ha solide basi di studi classici, poi all’età di sei anni cominciai al Conservatorio con studi classici. A dieci o undici anni mia madre, jazzofila, voleva che mi dedicassi a studiare quel linguaggio, l’improvvisazione e così mi iscrisse a una scuola musicale moderna di Altea, il mio comune, dove studiai seriamente con vari insegnanti fino ai diciott’anni. E la cosa importante è che ho avuto la fortuna di studiare con dei professori che rendevano piacevole il momento dell’apprendimento e ciò, a mio avviso, influisce moltissimo sul risultato finale, nella formazione e nel fare musica. Ci tengo a dire che nel frattempo studiavo anche piano cubano classico e sul quel versante i miei musicisti preferiti sono Cervantes, Saumell e anche Lecuona.

Ci torniamo su tra poco, ma intanto dimmi quali sono altri pianisti preferiti sia di jazz che di latin jazz.

Mi piacciono moltissimo Oscar Peterson, Mc Coy Tyner, Bill Evans e, per non parlare sempre dei soliti, apprezzo Don Pullen, in generale sono quelli che secondo me hanno forti tracce africane. I primi della classe del latin, per me, sono dei caraibici: Emiliano Salvador, Bebo Valdés, Chucho Valdés, Gonzalo Rubalcaba, Michel Camilo e…

…e chiedendoti se dovessi per forza scegliere tra questi chi sono i più completi, includendo nella lista anche nomi come Ernan López Nussa, Hilario Durán, Omar Sosa, Roberto Fonseca, Harold López Nussa, Ed Simón, Héctor Martignon, Danilo Pérez, Edy Martinez, Luis Perdomo?

Difficilissimo e imbarazzante rispondere, comunque io dico Chucho e Gonzalo per stare su Cuba, anche se loro due hanno stili molto differenti e quindi difficili da confrontare. Ma visto che vuoi farmi mettere una mano sul fuoco ti dico che, per i miei gusti afrocubani e per il ruolo che ha svolto, sto con l’immenso Chucho Valdés. Non vorrei mancare di rispetto agli altri, poi un mostro è il dominicano Michel Camilo. Andando più a sud mi viene in mente un pianista e compositore grandissimo che è stato il brasiliano Radamés Gnattali.

 

Bene, continuiamo a parlare del tuo primo disco “Hybrid/C” (Outhere) e spiegaci anche il significato di quella terza lettera dell’alfabeto nel titolo.

Partiamo dai diversi significati che io affido alla C: rappresenta il mio nome e cognome, sta per Cuba, e allo stesso tempo è un gioco di parole e si riferisce anche alla nomenclatura musicale, agli accordi ibridi che si scrivono con la barretta diagonale, insomma mi sono divertito a mescolare varie cose.

Quasi tutti i brani sono in qualche modo ispirati a santería e sincretismi religiosi cubani: apri il progetto addirittura riprendendo la voce dell’immortale e leggendario Lázaro Ros del Conjunto Folklorico Nacional, poi riconosco Ochún, la dea dei fiumi e della bellezza, poi fanno capolino altre figure mitologiche del pantheon Yoruba. Sbaglio o è così?

Esatto, in effetti ho tentato di impostare questo album come se fosse un viaggio, una cerimonia; per questo che comincio innovando e rinfrescando il Moyugba di Lazaro Ros apportando lievi modifiche acustiche e un poco di elettronica alla sua voce registrata. Iya Mi ilé (traccia 4) è una tema che richiama appunto come hai notato la divinità Ochún, e in generale ogni titolo ha un significato preciso nella lingua Yoruba (Nigeria) o in Bantù che proviene dal Congo. L’importante per me rispetto a questa dimensione è l’eredità dei valori culturali trasmessi da queste religioni e dialetti di origini africane.

Video:

Infatti a parte The Proverb, cioè la traccia che chiude il cd, e Black Ballad tutte le altre composizioni portano un titolo di origine africana o afrocubano. Chi conosce un po’ quel mondo avverte qualcosa di rituale nello sviluppo di tutto l’album, se penso a The Proverb, tra l’altro declamata in inglese, o almeno per quel poco che io sono riuscito a capire dall’audio un po’ oscuro, al termine del canto introduttivo direi un po’ arabeggiante. Se puoi, svelaci qualche altro segreto o messaggi presenti nel disco, di cui tra l’altro, e purtroppo per questioni economiche, non sono descritte nelle note informative, sei d’accordo?

Okay, mi piace molto questa puntuale e articolata osservazione. In effetti anche Black Ballad si salva, e il disco inizia come detto poc’anzi con una Moyugba, che più africano di così non si può (ride!), e termina con la citata The Proverb, cioè un proverbio che è espresso in inglese: la persona che poi interviene è un sacerdote yoruba nigeriano di nome Okuku e quell’audio proviene da un documentario che si chiama The Return of the drums e non ti sto a raccontare come, attraverso contatti multipli, siamo riusciti a centrare il nostro obiettivo. In sintesi la frase mi affascinò per il ritmo con il quale la pronunciava, qualcosa di magico il cui significato è: non importa come si evolve e come si tratta un nativo perché mai dimenticherà le sue origini. E mi sembrava interessante concludere l’album con questo messaggio-preghiera del sacerdote yoruba in inglese.

E allora cerchiamo di tracciare una piccola guida all’ascolto, o almeno per i significati dei titoli. Aite, la traccia 5, riprende e cita con la bella e frizzante tromba di Machado il famoso Dile a Catalina dei primissimi Irakere con rimandi al montuno e al mitico Benny Morè: è giusto o sono mie sensazioni?

Hai centrato esattamente, non ci sono dubbi, la tromba di Manuel Machado è ispirata nettamente a Dile a Catalina que se compre un guayo. In assoluto noi musicisti cerchiamo di nascondere un po’ le influenze, io però sono talmente orgoglioso delle mie influenze che le voglio mostrare perché desidero parlare di Irakere, di Chucho e di Bebo Valdés, di Pepe Rivero e…

…e via con i titoli e qualche traduzione.

Moyugba, preghiera nella cerimonia, per chiedere permesso alle divinità, agli Orisha e agli antenati, una sorta di protezione; Ilé-Ifé, per gli Yoruba è dove comincia il mondo; Ebi per me significa famiglia; Iya Mi ilé è un arrangiamento di un canto tradizionale per la dea Ochún; di Aite, che hai già descritto, voglio dire questo: lo composi poco tempo prima che morisse mio zio (fratello di mia madre con problemi di salute e di pronuncia) e poiché mi chiamava o capivo tale nome un giorno cercando in internet scoprii che Aite è un albero che cresce soltanto a Cuba e simbolizza pace e riposo e allora ho denominato così quel brano; Amewa se non erro è parola di origine congo e rappresenta un’espressione sublime di bellezza; Dinza, secondo alcuni storici e linguisti sarebbe la creolizzazione della parola che oggi conosciamo come jazz, stile il cui linguaggio l’anima del brano; Black Ballad è frutto di un mio stato emotivo e da lì volevo una ballata africana, nera, dove sullo sfondo c’è comunque sempre un lato ritmico, percussivo; Lu-Fuki, di origine congo si riferisce alla parola originaria che conosciamo come funky.

Andiamo verso la conclusione, presentiamo i musicisti invitati nel progetto che mi sembrano tutti, o quasi tutti, con origini latinoamericane.

In effetti chi più o chi meno abbiamo un po’ di quelle radici: Bobby Martinez (saxes), è nordamericano di origini cubane; Manuel Machado (tromba), cubano; Gregorio Herreros (tastiere) è nato a Granada, vive a Malaga ma di origini venezuelane; Reinier Elizarde (contrabbasso) è cubano; Georvis Pico (batteria), cubano; Erik Larrea (batà/congas), lussemburghese-basco. Guest: Yuvisney Aguilar (percussione/voce), cubano; Maria José Llergo è cantante spagnola che sta avendo molto successo mischiando flamenco con pop elettronico; David Lorenzo Adkinson è soprattuto tecnico di post produzione ed effetti; Alvaro Artime (tromba) asturiano, Spagna; Cesar Filiú (sax alto), ventenne vive a Madrid, cubano è il figlio del più famoso Roman anch’egli sax; Christian Murgui, di Salamanca, qui suona il clarinetto ma è anche un impressionante batterista.

Stai creando qualche altro progetto?

Sto lavorando a una collaborazione speciale con l’Istituto di Danza Alicia Alonso per un evento musicale-coreutico che si terrà in aprile in una chiesa sconsacrata di Segovia. E tra pochi mesi mi trasferirò a New York grazie alla prestigiosa borsa di studio Fulbright, cioè un programma di specializzazione post-laurea e che in Spagna viene concessa a diciannove persone di discipline scientifiche, letterarie e artistiche e io sono l’unico artista. Ovviamente questa borsa viene riconosciuta a seguito di un lungo lavoro di ricerca e creatività. Sul posto farò un altro master impegnandomi in ricerche a largo raggio sulla pedagogia e dentro questo programma c’è la possibilità di collegarsi ad altre università quindi penserò di vincolarmi alla Berklee Global Institute Jazz di Boston.

Gian Franco Grilli

 

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